La battaglia di tutti
La lettura dei giornali di oggi mi ha richiamato alla mente un post che scrissi qualche tempo fa, e che fu la causa scatenante la decisione di cominciare il mio digiuno. Ciò che è cambiato da allora è che la legge sulle unioni civili non è più soltanto una delle cose da fare: è diventata la prossima cosa da fare.
L’incardinamento nell’aula del Senato segna la sostanziale irrevocabilità della procedura parlamentare che ci porterà finalmente ad avere la legge, ma questo non vuol dire che la battaglia sia vinta, tutt’altro. E dimostrazione ne è la virulenza con la quale gli oppositori della legge, alla fine una legge prudente e conservativa come la Cirinnà, stanno provando ad affondarla.
Ma mentre la destra e i cattolici fondamentalisti sparano a palle incatenate, la sinistra italiana tace.
Non parlo solo della sinistra politica, quella stessa sinistra che dal centro e dalla periferia attacca Renzi sulla riforma costituzionale, sulla riforma elettorale, sul contante a 3000 euro, sull’abrogazione integrale delle tasse sulla casa, sulle trivelle, sulla buona scuola e chi più ne ha più ne metta e che però non dice una parola che sia una per incoraggiare il Presidente del Consiglio ad andare avanti sulle unioni.
Mi riferisco anche alla mitica “società civile”, al mondo esterno che, sebbene spesso ce ne si dimentichi, è alla fine il “mandante” della politica, il motore e la ragione ultima delle cose che la politica fa, il portatore degli interessi che la politica prova a soddisfare. Se il pezzo di Italia che chiede di non fare assolutamente la legge sulle unioni civili si vede benissimo, dove sta e cosa fa per farsi riconoscere il pezzo di Italia che in teoria chiederebbe quella legge?
I media non aiutano di certo. Mentre i giornali contrari al ddl sono tutti schierati sulla tesi che questa legge segnerà senza dubbio la fine della civiltà, i giornali della sinistra liberale – dando prova di un equilibrio britannico che normalmente il giornalismo nostrano bazzica pochissimo – pubblicano rigorosamente spalla a spalla l’intervista di un favorevole e quella di un contrario. Se la tesi per cui “un bambino ha bisogno di una mamma e di un papà” trova tutto lo spazio necessario nei talk show televisivi, della tesi per cui un bambino ha bisogno che i suoi genitori siano riconosciuti entrambi come tali non si trova traccia.
Nel 1974 il referendum sul divorzio lo si vinse anche all’appoggio della stampa: tipo le campagne di ABC, un settimanale anticonformista, radicaleggiante e libertario (oggi qualcuno lo definirebbe “laicista”), che prese una posizione netta sull’argomento, come si vede dalla copertina qui sotto.
O vogliamo parlare della famosa copertina dell’Espresso contro gli aborti clandestini con la donna crocifissa, che provocò un incredibile scandalo all’epoca della sua pubblicazione e che segnò una precisa presa di posizione del settimanale a favore della legge sull’interruzione di gravidanza?
Ebbene, nessun giornale oggi sostiene in questo modo la battaglia sulle unioni civili, facendone una campagna vera e propria. Eppure stiamo parlando della rimozione di una discriminazione che è un unicum italiano e che corti di giustizia di ogni livello hanno stigmatizzato come antistorica e antigiuridica.
Leggo che i sondaggi sarebbero contrari alla “stepchild adoption” e – ammesso che non concesso che sia vero – mi chiedo cosa faccia l’informazione, cosa facciano i nostri opinion leader per far sì che il Paese si costruisca la stessa consapevolezza informata sull’argomento che si è fatta l’opinione pubblica di tutti gli altri paesi occidentali e che, di conseguenza, anche i sondaggi registrino questo cambiamento.
Eppure la sinistra italiana esprime personaggi capaci di guidare una fetta consistente della nostra pubblica opinione. Ci sono commentatori che commentano pure la propria lista della spesa, nella maggior parte dei casi condannando con l’indice puntato la decadenza morale di questo paese e la corruzione delle sue classi dirigenti. Ci sono scrittori che non esitano a rischiare la galera per affermare il diritto di sabotare le opere pubbliche. Ci sono conduttori televisivi capaci di trasformare in pochi minuti un libro di cucina in un best seller.
E’ mai possibile che nessuno di loro abbia da dire una sola parola sul fatto che l’Italia è praticamente l’unico paese occidentale per il quale i cittadini omosessuali sono meno cittadini degli altri? E’ possibile che questa forma di apartheid li trovi così completamente indifferenti, che non abbiano nulla da dire, che non si accorgano che qui non si sta discutendo solo dei diritti degli omosessuali, ma del tipo di società nel quale intendiamo collettivamente vivere?
L’Italia che legiferò sull’aborto e sul divorzio non risolse solo il problema, pur straordinariamente importante, di alcune migliaia di sposi che non si amavano più o di alcune migliaia di donne rimaste incinte di figli che non potevano tenere. Quell’Italia decise che tipo di paese voleva essere. Se voleva restare un paese contadino, patriarcale, conservatore e legato al proprio passato, o se invece voleva diventare un paese moderno, paritario, laico, aperto e rispettoso del progetto di vita di ciascuno.
E’ lo stesso dilemma che ha attraversato la società irlandese nel referendum di maggio che ha introdotto il matrimonio ugualitario, ed è il dilemma che oggi l’Italia si trova nuovamente davanti. Un dilemma che riguarda ognuno di noi, davvero indipendentemente dall’orientamento sessuale di ciascuno. Che un interrogativo così importante e di portata così generale sia perfettamente compreso da destra e così colpevolmente abbandonato da sinistra è fonte per me di profonda frustrazione e rappresenta oggettivamente uno dei principali ostacoli che chi lavora a questa legge si trova ad affrontare.
Come per tutte le minoranze, anche per le persone e le famiglie omosessuali la battaglia non sarà vinta fino a quando il tema della loro uguaglianza non diventerà patrimonio della maggioranza degli italiani. Ma è un’operazione win-win: si lotta per l’uguaglianza degli altri perché in cambio si ottiene la possibilità di vivere in un posto migliore. E’ una battaglia di tutti e c’è disperatamente bisogno dell’impegno attivo di tutti: politici, certo, ma anche opinionisti, giornali, star televisive, attori di cinema, cantautori, saggisti, vecchie glorie, sindacalisti, calciatori, critici d’arte, chef stellati, famiglie con bambini, lontani parenti, colleghi di ufficio, vecchie zie e vicini di casa.
E’ più rugby che calcio, sappiatelo, il campo è pesante e ci si sporca di fango. Ma non ci serve qualcuno in tribuna che faccia il tifo per noi, ci serve gente che giochi in squadra con noi. Ci siete?