Luigi Di Maio, pensoso dei guasti provocati nelle famiglie italiane dal lavoro in corso di festività, deplora che ci siano delle persone obbligate a prestare servizio di domenica, e ne approfitta per scagliarsi contro le liberalizzazioni (in questo caso degli orari di apertura degli esercizi commerciali, ma anche contro le liberalizzazioni in genere, come abbiamo visto a proposito dei tassisti).
Non so se il vicepresidente della Camera lo sappia, ma questa polemica non ha molto di nuovo: risale almeno al Quattordicesimo secolo dell’era cristiana, e l’ha spiegata in modo pianamente divulgativo Jacques Le Goff nel suo saggio “Tempo della chiesa e tempo del mercante”. In esso si spiega come nella Francia medioevale ci fosse una sorda ostilità dei poteri ecclesiastici verso i primi orologi pubblici, che toglievano alle campane di chiese e monasteri il potere di scandire la vita quotidiana. Il trapasso dalla società feudale e dalla sua economia curtense all’età moderna si accompagnò, come era logico fosse, ad un lungo scontro fra i nostalgici dell’ordine antico e i facitori di quello nuovo, con tutte le sue incognite e criticità.
Simbolicamente, la battaglia fra i batacchi e le lancette, fra campane e orologi, fu vinta da questi ultimi nel 1370, quando Re Carlo V di Francia, avendo installato un orologio che suonava le ore su una delle due torri del palazzo reale, e temendo non fosse abbastanza potente il suono dei suoi rintocchi, ordinò che tutte le Chiese di Parigi li accompagnassero con il loro suono. Ma la controversia sul valore sociale del tempo e sul corretto modo di utilizzarlo non è mai finita. La società complessa, quella che si è plasmata in Occidente e viene progressivamente emulata in ogni parte del mondo, prevede un “tempo di funzionamento” sempre maggiore (alzi la mano chi ancora può dire di aver visto in tv la sigla “fine delle trasmissioni”), che ha inevitabili ed intuibili conseguenze sul tempo di vita degli individui. Se andiamo con la mente anche a pochi decenni fa, possiamo facilmente verificare che il numero delle persone impegnate al lavoro “nelle feste comandate” è cresciuto in modo esponenziale, parallelamente all’aumento del settore dei servizi rispetto a quelli dell’agricoltura e dell’industria.
Siccome nessuno immagina che la domenica si chiudano – ad esempio – gli aeroporti e le ferrovie, gli ospedali e i teatri, gli stadi e le discoteche, la polemica sulla Pasqua sottratta ai dipendenti di Serravalle Scrivia appare totalmente strumentale. Perché un grande centro commerciale è di necessità aperto soprattutto durante il tempo libero di chi va a visitarlo. Non rendersene conto significa mettere a repentaglio la sua stessa esistenza, e non credo che chi ci lavora guadagnerebbe da una sua chiusura. Certo, c’è un problema che riguarda le modalità con cui viene stabilito il calendario delle aperture, il livello di retribuzione con cui questo lavoro in occasioni particolari viene compensato e così via. Un problema di relazioni industriali e di contrattazione, che forse è tanto più agevole quanto meno ci si abbandona a manifestazioni “dimostrative”; ma il sindacato è lì apposta per fare le sue battaglie ed imparare dai suoi eventuali errori.
Questo però non c’entra né con le famiglie né con le liberalizzazioni: c’entra con l’idea (che è la quintessenza del populismo) che di fronte alle sfide e ai limiti della contemporaneità si possa negarla, la contemporaneità; rimuoverla, esorcizzarla. Evocando un’improbabile Arcadia in cui le famigliole italiane finalmente riunite possano stare insieme attorno alle mensa domenicale contro quei cattivoni delle multinazionali (che poi, piacerebbe vedere cosa succederebbe se improvvisamente chiudessero tutte insieme, le multinazionali).
Il mondo non si ferma, caro Di Maio, anche quando – capita a tutti, anche a gente parecchio attrezzata – si vorrebbe scendere. L’idea di uno Stato “campanaro” che gestisce in modo paternalistico il tempo degli individui e regala “vuote domeniche d’ozio” (cit.) a cittadini che entrano nel panico se perdono per cinque minuti la connessione internet non è solo ridicola: è pericolosa.