Cari Monica e Sergio,
Se esiste un campo dell’attività di governo in cui anche i peggiori detrattori di Matteo Renzi e del Partito democratico non riescono a muovere un appunto né all’uno né all’altro, quello è il campo dei diritti. Negli anni del governo Renzi, peraltro con Andrea Orlando tra i ministri competenti per materia, si sono portate a casa non solo le unioni civili, ma il divorzio breve, la legge sul “dopo di noi”, quella sull’autismo.
Insomma, se c’era un campo nel quale questa stagione congressuale avrebbe potuto rappresentare un momento di unità e di sintesi, se c’era un settore in cui l’appartenenza di corrente avrebbe potuto lasciare il campo a un momento di “orgoglio democratico” trasversale, se c’era un elemento a fare la differenza anche in chiave elettorale tra tutto il Partito democratico da un lato e le destre nazionaliste e i movimenti populisti dall’altro era proprio quello.
E’ dunque prima di tutto per ragioni di metodo politico che non abbiamo compreso la vostra scelta, nella legittima posizione di appoggio ad Andrea Orlando, di attaccare frontalmente Matteo Renzi sulla stampa e sui social media: una scelta che pensiamo sia politicamente sconsiderata, oltre che contraddittoria sul piano dei contenuti. E’ una scelta sconsiderata perché rompe un fronte dei diritti che era e rimane molto fragile, come le recenti uscite di Beppe Grillo dal suo blog in tema di testamento biologico, che già mettono a rischio la legge nel suo prossimo passaggio in Senato, dimostrano in modo del tutto evidente.
Vedere Cirinnà e Lo Giudice scagliarsi contro Renzi è uno scenario che favorisce soltanto quel vasto fronte di forze la cui agenda per i diritti è nessuna agenda per i diritti. Provare a sminuire il lavoro e la figura di Matteo Renzi e rivendicare la titolarità del lavoro sui diritti soltanto alla parte del PD che si rifà ad Andrea Orlando non significa affatto rafforzare Orlando, significa invece relegare quei temi fondamentali per il nostro paese in una riserva indiana. Se vogliamo proseguire nel cammino intrapreso, l’unica possibilità è farne patrimonio comune di tutto il partito della sinistra più grande d’Europa, non solo di una sua minoranza.
Ma al di là del metodo, quello che veramente non va è che le accuse rivolte a Renzi sono scorrette sul puro piano dei fatti e forse vale la pena di ristabilire la verità storica, non tanto per un punto di principio, ma anche – a beneficio dell’opinione pubblica e dei nostri potenziali elettori – per comprendere in che direzione il nostro partito si è mosso e come, con la probabile riconferma di Renzi alla segreteria, si muoverà in futuro.
Parliamoci chiaro: prima che Matteo Renzi arrivasse alla segreteria del PD e alla guida del governo, le persone LGBT in Italia per la legge non esistevano e in politica mangiavano la polvere. Grandi proclami elettorali si sono sempre risolti nel vuoto pneumatico di politiche e di risultati. Leader politici (sedicenti) di sinistra come Massimo D’Alema, ex presidente del Consiglio, non ebbero timore di affermare pubblicamente che le coppie gay e lesbiche non potevano trovare riconoscimento nella legge perché “il matrimonio per gli italiani è un sacramento”, con buona pace del codice civile vigente.
E le cose nel Partito non sono andate meglio in tempi più recenti: basti ricordare il totale isolamento in cui si trovò Paola mentre provava nella scorsa legislatura a far approvare l’aggravante di omofobia per i reati contro la persona. Uno sforzo apprezzato dall’intera opinione pubblica che però non rese l’unica parlamentare apertamente LGBT della scorsa legislatura nemmeno meritevole agli occhi della segreteria Bersani di una candidatura che le consentisse la continuazione del suo lavoro in Parlamento.
O la situazione in cui si trovò Ivan a inizio legislatura (presidente del Consiglio: Letta, segretario del partito: Bersani) durante la discussione per l’estensione della Legge Mancino all’omofobia e alla transfobia. Convocato dal Presidente del Gruppo alla Camera, Roberto Speranza, gli fu spiegato che senza il sub-emendamento Gitti, che ne avrebbe poi comunque causato la morte politica, non ci sarebbe mai stata nessuna legge. Una legge – e su questo dissentiamo con voi in modo radicale – che comunque sarebbe molto meglio oggi avere, non il contrario: basti dire al proposito che ad auspicare che quella legge non si approvi mai sono proprio le frange più conservatrici e retrive del modo cattolico.
Questa è la leadership con cui, fino all’avvento alla segreteria di Renzi, abbiamo avuto a che fare: una leadership con i sensi di colpa per la propria provenienza politica post comunista, tutta presa dallo sforzo di farsi accettare dall’elettorato cattolico e per questo culturalmente subordinata e pronta a gettare alle ortiche ogni velleità dei propri cittadini di vivere in uno stato laico. La legge sul divorzio l’hanno fatta un socialista e un liberale, non dimentichiamocelo, e Pier Paolo Pasolini nel Partito Comunista Italiano non visse certamente giorni sereni prima di esserne espulso a causa della sua omosessualità.
Abbiamo dovuto aspettare Matteo Renzi, un giovane cattolico di nemmeno 40 anni, per sentire un capo di governo della sinistra italiana pronunciare le parole: “Ho giurato sulla Costituzione, non sul Vangelo”. Abbiamo dovuto aspettare uno come lui per sentir dire che non si eleggeva un certo Presidente della Repubblica soltanto perché era cattolico. Abbiamo dovuto aspettare Renzi per vedere un governo italiano mettere la fiducia su un disegno di legge come quello delle unioni civili.
Il coraggio di mettere a repentaglio l’appoggio dei Gandolfini e degli Adinolfi e delle loro piazze medievali in forza di un principio di civiltà. La scelta di lasciare Paola Binetti a parlare isolata e inascoltata nell’aula di Montecitorio, quella stessa Binetti che i segretari “di sinistra” avevano voluto influente membro del Partito e del gruppo parlamentare. La determinazione di non lasciar cadere la legge, anche quando noialtri, tutti e quattro, politicamente avevamo perso.
Perché vedete, la generosità non sarà forse del nostro mondo, ma nelle vostre accuse a Renzi troviamo anche una certa ingratitudine non personale, mancherebbe, ma politica. Perché la scelta politica (nostra e vostra, di Lumia, di Zanda e di tutti gli altri che hanno lavorato a quella legge) assecondata da Renzi e da Boschi anche nonostante quello che avrebbe consigliato la prudenza, è stata quella di fidarci del Movimento 5 Stelle. Una scelta certamente né unanime né pacifica, all’interno del partito.
Per un segretario-presidente accettare di fare una legge contro la sua stessa maggioranza è un enorme sacrificio e un grosso rischio, perché significa indebolire il proprio stesso governo. E anche per un partito di governo, decidere di indebolire la maggioranza significa mettere a repentaglio la legislatura in cui si governa, si presiedono le commissioni, si detta l’agenda politica del Paese.
Per fare la legge che ritenevamo giusta abbiamo chiesto e ottenuto da Matteo Renzi di lavorare con 5Stelle, e i fatti hanno detto che avevamo sbagliato, che avevamo politicamente torto a fidarci di loro. In un altro tempo saremmo stati costretti a fare pubblica autocritica e poi ritirarci a vita privata. In quel momento il Presidente del Consiglio avrebbe potuto dirci: vi ho lasciati fare, la maggioranza che mi avete indicato alla prova dei fatti non esiste, per questa legge non ci sono più spazi in questa legislatura.
E invece nel momento della nostra massima debolezza Renzi e Boschi hanno costretto Alfano al voto di fiducia. Abbiamo perso la stepchild adoption, ma sappiamo benissimo che i deputati e i senatori di NCD (e, purtroppo, anche molti dei nostri) l’adozione del figlio del partner non l’avrebbero votata mai, anche a costo di far davvero cadere il governo e concludere anzitempo la legislatura, con il risultato di non avere la legge comunque. Se oggi abbiamo la legge sulle unioni civili, una delle poche che porta il nome di un o di una parlamentare in questa legislatura, lo dobbiamo al grande lavoro fatto collettivamente, certo, ma in modo determinante alla determinazione assunta da Matteo Renzi di finalizzare un procedimento legislativo che da solo non sarebbe mai andato da nessuna parte.
“Ma quello che conta è ciò che vuole fare Renzi in futuro”, scrive Sergio su Twitter, a valle di una trasmissione de “Le Iene”. Ci perdonerete ma troviamo più sensato guardare il testo delle due mozioni, invece che il copione di una trasmissione televisiva, per capire chi abbia le idee più chiare sull’argomento.
Ebbene, il testo della Mozione Renzi parla in modo specifico di cose da fare: “Nonostante gli importanti risultati raggiunti dalle unioni civili alla violenza di genere, dobbiamo continuare nella direzione di un effettivo allargamento della sfera dei diritti: riforma e snellimento del sistema delle adozioni; […] contrasto a omofobia e transfobia; istituzione un’agenzia indipendente per i diritti e le libertà civili che superi l’Unar.” Tre cose precise: adozioni, omofobia, UNAR.
Questo è invece ciò che dice la Mozione Orlando: “Il Partito democratico è stato protagonista di una nuova stagione dei diritti e delle libertà. Ci siamo emozionati per i sigilli apposti su alcune leggi, come quella sul caporalato. E quella sulle unioni civili, primo passo verso la piena uguaglianza e lotta contro ogni discriminazione. […].” Fine. Nella mozione programmatica di Andrea Orlando, a parte questo richiamo a quello che ha fatto il Governo Renzi, di persone LGBT non si parla più.
Le posizioni che ci accomunano a voi, lo sappiamo tutti, sono le più avanzate dell’intero panorama politico italiano. Ma per il momento non sono maggioritarie e per ottenerle sarà necessaria una lunga battaglia, che, come ci insegna l’esperienza, non può essere vincente se non è una battaglia comune. E’ per questo che non capiamo. Perché l’unica condizione per poter andare al di là del programma di Renzi e di quello, diciamolo: silente in materia, di Andrea Orlando, è la nostra compattezza.
Se la sinistra che si divide è autolesionista, il fronte dei diritti che si divide è suicida.
Speriamo, per il progresso del nostro Paese, che dal primo maggio si possa tornare a lavorare insieme e mettere alle spalle questa fase di divisione, che come speriamo di aver chiarito, è stata politicamente incomprensibile e nella nostra opinione persino dannosa per la causa dei diritti.
Con il solito affetto,
Paola e Ivan