Nicola Zingaretti è il nuovo segretario del Partito Democratico, e dunque da ieri sera è il mio segretario.
Ho sostenuto con passione Roberto Giachetti e Anna Ascani che hanno fatto un grande risultato date le risorse e le forze disponibili: molto migliore, vedrete, di quello che oggi riportano i giornali. Dai dati che ho potuto vedere è realistico pensare che Giachetti – che, per dirne una, ha superato Martina in tutta Roma – si attesterà intorno al 15% e che Maurizio resterà sotto al 20%, con Zingaretti che prenderà il resto.
Di questo dobbiamo ringraziare i nostri due leader e l’enorme numero di persona che hanno liberamente scelto di sostenere un progetto senza che nessuno lo chiedesse loro, spesso in opposizione alle indicazioni di parlamentari, sindaci, consiglieri regionali del luogo. Una scelta di idealità e di libertà che ha dato a tutti noi che ne siamo stati parte un entusiasmo che non pensavamo più fosse possibile provare. Ne parla benissimo Anna in un suo post di oggi: è un punto di partenza per un pezzo di partito che vuole farsi sentire e che sarà presente con vigore nel dibattito interno e sulle grandi scelte che avremo davanti.
Ma lasciate che vi dia anche una prospettiva più personale, più mia, sulla genesi e sull’esito di questo congresso.
I giornali italiani tendono molto a semplificare e a personalizzare e hanno spiegato che la mozione Giachetti era quella dei “turborenziani”: quella dei tifosi e dei nostalgici di Matteo Renzi. Con il vostro permesso, io proverei a riportarla in politica. Mi è capitato spesso di dire, in conversazioni pubbliche e private, che io voglio molto bene a Matteo Renzi ma ancor di più voglio bene alle idee di Matteo Renzi, ed è per questo che ho da subito sostenuto e lavorato per il successo della mozione di Roberto e Anna.
In tutti i grandi partiti progressisti europei si fronteggiano una linea politica diciamo così più “social-democratica” e una linea più “liberal-democratica”. Faceva eccezione la sinistra italiana che, figlia dell’anomalia dell’essere derivazione del “più grande partito comunista di occidente”, ha sviluppato la sua cultura politica soltanto su una linea per così dire laburista: vicina al sindacato e tendenzialmente caratterizzata da politiche rivolte soprattutto al tema dell’uguaglianza e del sociale, considerando come propria constituency il mondo del lavoro dipendente e dei pensionati, tendenzialmente conservatrice, e con una priorità sulla distribuzione della ricchezza rispetto alla creazione della medesima.
Il limite della sinistra italiana è stato quello di essere più ideologica che pragmatica, più interessata – nella dicotomia weberiana – ad affermare l’”etica dei principi” che l’”etica della responsabilità”, più incline insomma ad affermare la visione di un mondo ideale che a tentare di governare il mondo com’era. Alla fine da noi, durante i decenni della “Prima repubblica”, la sinistra ha abdicato a ogni ambizione di governo e ha deciso di influenzare, invece che gestire, la vita del Paese attraverso la leva della cultura e del ruolo anche educativo e pedagogico dell’intellighenzia organica o collaterale al Partito.
Davanti a una sinistra siffatta la sinistra liberale e riformista ha dovuto affrontare un destino di pura nicchia. L’azionismo non ebbe mai un grande successo, fino a scomparire dalle schede elettorali, il Partito repubblicano e il Partito socialista (quest’ultimo con una dialettica più accesa, ma pur sempre in un’ottica di alleanza strutturale) si ridussero a diventare nell’ottica del governo in qualche modo satelliti della DC. I “moderati illuminati”, insomma, nel nostro Paese non sono mai diventati un fenomeno di massa.
Le cose sono rimaste più o meno in questi termini fino all’irrompere di Matteo Renzi sulla scena politica. Se c’è un merito storico che sicuramente va ascritto a Renzi è stato quello di aver trasformato per la prima volta nella storia d’Italia la sinistra liberal-democratica in un fenomeno pop, di massa. Per la prima volta i temi della libertà individuale, della produzione del reddito, della modernizzazione del Paese, dell’attenzione al mondo dell’impresa e del lavoro indipendente in un’ottica di superamento della dialettica capitale-lavoro, sono diventati i protagonisti dell’agenda della sinistra italiana.
Per spiegare quello che intendo si prenda l’esempio più chiaro che abbiamo a disposizione relativo agli anni della segretaria del PD targata Renzi e dei due governi che l’hanno caratterizzata: la legge sulle Unioni civili. Com’è possibile che una legge siffatta sia stata approvata da un Presidente del Consiglio cattolico, mentre presidenti più caratterizzati a sinistra come Massimo D’Alema o Giuliano Amato sostenevano rispettivamente che “il matrimonio è un sacramento” e che non si poteva impedire lo svolgimento del World Gay Pride del 2000 a Roma perché “purtroppo” la Costituzione ne impediva la cancellazione?
L’arcano si spiega appunto perché Renzi è un liberal-democratico, più attento per definizione ai diritti della persona di quanto possa mai esserlo un socialdemocratico, la cui cultura è ovviamente più incline a guardare a quelli che sono i diritti collettivi e le dinamiche che intercorrono tra classi e gruppi all’interno della società.
Questa è la fonte del grande equivoco per cui spesso a Renzi e ai suoi è stato rimproverato di essere “di destra”. Ovvio che si trattasse una stupidaggine colossale (uno che approva le unioni civili o le tante leggi sui diritti votate nella scorsa legislatura non può ovviamente essere “uno di destra”), ma giustificata dal disorientamento di avere una sinistra “diversa” da quella alla quale siamo stati storicamente abituati nell’Italia del “Fattore K”. Tutto ciò che non era sinistra laburista era qualcosa di diverso, e quindi “destra”: un’idiozia che ha tradito un bel pezzo dell’Italia, compresi troppi commentatori, e che ci ha portato purtroppo a vedere molto da vicino, grazie a questo governo, cosa sia veramente la destra.
Ecco, questa è la mia cultura politica, il filone di pensiero in cui si inserisce il mio agire come dirigente di partito e come parlamentare. Ed è questa la ragione di quella che viene percepita come la mia “fedeltà” a Renzi, che invece è semplicemente la fedeltà alle mie idee, a un pensiero – il mio – che prima dell’arrivo di Matteo Renzi faceva fatica a trovare spazio sulla nostra scena politica e che oggi, invece, semplicemente c’è e non può più essere cancellato o ridotto a un club per pochi eletti.
Questa è dunque la ragione per cui ho appoggiato immediatamente Giachetti e Ascani. Qualcuno mi ha fatto i complimenti, dicendomi che questa scelta era stata una scelta “coraggiosa”. In realtà avevo semplicemente chiesto dal principio del percorso congressuale che ci fosse, tra i candidati segretari, qualcuno che esprimesse la nostra posizione politica riformista perché quello sarebbe stato il candidato o la candidata che avrei appoggiato.
Quando dunque la maggior parte dei parlamentari “renziani” ha deciso di convergere su un candidato come Maurizio Martina, evidentemente espressione di una linea politica diversa, omogenea a quella di Zingaretti, ho dunque detto da subito che non avrei potuto aderire. Quando invece è inopinatamente emersa la candidatura di Giachetti non ho fatto altro – e non c’è voluto alcun coraggio, ce ne sarebbe voluto invece per fare diversamente – che sostenere l’unica candidatura che rispecchiasse le mie idee.
Per questo, quando ieri sera, pochi minuti dopo la chiusura delle urne, Martina ha annunciato il suo appoggio “senza se e senza ma” a Nicola Zingaretti non mi sono stupito e non ho trovato che si trattasse di un’operazione trasformista o di un salto sul carro del vincitore. Ho semplicemente pensato che due persone dal percorso e dalla formazione omogenee si ritrovavano insieme, com’era logico che fosse sin dall’inizio. Certo, resta da capire perché nel nostro Partito si continui a posizionarsi sulla base di logiche personali e non politiche: me lo chiedo da quando nel 2009 Letta si schierò con Bersani e Fassino con Franceschini, il tutto ai miei occhi completamente inspiegabile dal punto di vista dei contenuti.
Dico questo per spiegare che la mia posizione nel Partito Democratico di Zingaretti sarà semplicemente quella di un liberal-democratico che ha perso il congresso e che resterà a rappresentare con fierezza e senza sconti le sue posizioni, oggi di minoranza, in un partito che – com’è fisiologico che sia – ha visto questa volta prevalere l’altra linea.
Ci sarò e farò la mia battaglia con correttezza e disciplina (tutto il contrario, in verità, di quello che ho visto spesso fare negli ultimi cinque-sei anni dalla minoranza pro-tempore) come un deputato blairiano sotto la segreteria di Jeremy Corbyn o, viceversa, un delegato di Sanders che vota la Clinton. Lavorando per vincere il prossimo congresso e soprattutto, insieme ai miei compagni di tutte le culture interne, per vincere le prossime elezioni.
Naturalmente tutto questo ha un limite, e la recente uscita di Chuka Umunna e di altri sei deputati dal Labour party di Corbyn lo dimostra.
Per essere un grande partito che prevede al proprio interno l’alternanza della linea politica è necessario il verificarsi di tre condizioni: innanzi tutto che si accetti che esistono culture differenti al proprio interno – il PD è nato precisamente su questo presupposto – che necessitano di giungere a una sintesi.
Poi bisogna che il partito resti contendibile.
In ultimo, bisogna che ci sia una posizione comune su determinati valori inderogabili, che sono il collante e il minimo comune denominatore che tiene insieme tutti (per fare un esempio, i sette fuoriusciti di Londra hanno denunciato che il partito sia scivolato su posizioni antisemite: in un partito antisemita non ci stai, punto).
Per me, come hanno detto a più riprese Anna e Roberto in questa campagna, uno dei valori inderogabili è l’assoluta indisponibilità ad alleanze con i populisti. Il nuovo segretario si è impegnato in questo senso, e noi lo prendiamo in parola nonostante tutti i commentatori ieri sera in televisione discutessero solo quando – e non se – l’apertura a M5S accadrà.
Sono a casa nel PD dalla sua fondazione e spero di continuare a sentirmi a casa: questo non significa gestire posizioni, al contrario: significa continuare a sentire che le mie idee in questo partito hanno cittadinanza e che rappresentano un valore. Basterà questo, ma nulla di meno di questo.
Le condizioni esterne cambiano, la battaglia per le proprie idee continua qualsiasi siano le condizioni esterne.