Luca Sofri mi chiede una “visione” sull’Iraq. Rispondo così.
Caro Luca,
io penso che il ritiro delle truppe sia una posizione sull’Iraq. Anzi, di più. Penso che sia il primo passo con il quale affermare un ruolo vero del nostro paese in politica estera. L’Italia ha, anche nel delicato settore della diplomazia, una nuova generazione pronta ad assumersi le responsabilità di una politica estera fondata su principi diversi. Anche in questo campo, far emergere l’Italia migliore è possibile. Negli ultimi cinque anni siamo stati vassalli della politica di Bush. Rovesciare questo schema significa, però, assumersi maggiori responsabilità. Il ritiro quindi dovrà avvenire contestualmente ad una nuova politica fondata sulla diplomazia e sulla forza economica dell’Europa. Come, finalmente, sta accadendo in Israele, le due azioni devono essere sincrone per evitare di chiudersi in un paradosso.
Le truppe straniere godono di una pessima reputazione presso la opinione pubblica araba. Guantanamo e i crimini di Abu Grahib non rendono più credibile una politica di “esportazione della democrazia”. I contingenti internazionali stanno esacerbando il problema della sicurezza interna in Iraq, ma allo stesso tempo ritirare i militari senza porre in atto contemporaneamente una politica di sicurezza di ampio respiro, potrebbe voler dire far esplodere il paese.
Essere risoluti nel ritiro è, in questa logica, un segnale chiave da lanciare all’opinione pubblica irachena e agli altri paesi dell’area, per riacquistare la credibilità perduta. Questo può consentire all’Italia di promuovere la partecipazione dell’Unione Europea – coinvolgendo prima di tutti la Gran Bretagna e la Polonia – per studiare una soluzione negoziale assieme al governo provvisorio dell’Iraq e ai paesi arabi dell’area che, introdotta inizialmente nella provincia controllata dai nostri militari, possa poi estendersi anche in altre aree del paese, favorendo il ritiro anche degli altri contingenti.
La soluzione negoziale, stimolata dall’Italia, ma gestita da tutta l’Unione Europea, coinvolgerebbe quindi anche i paesi che non sono finora intervenuti in Iraq come la Francia e la Germania. L’Unione Europea sarebbe così impegnata ed unita non sulla base di astratte alchimie istituzionali, ma attraverso una politica condivisa che miri a ridurre il livello di conflittualità internazionale ed imponga allo stesso tempo principi democratici. Il ritiro delle nostre truppe consentirebbe anche di superare la frattura tra interventisti e non interventisti, riconoscendo la necessità di un forte impegno internazionale proprio perché si rifiuta l’uso della forza come strumento di soluzione delle controversie internazionali.
In questo contesto – anche ipotizzando che gli Stati Uniti rifiutino questa logica – l’Unione Europea potrebbe negoziare con ben altra forza e credibilità una partecipazione formale e sostanziale dei paesi arabi, prima di tutti la Giordania, nel mantenimento della sicurezza in Iraq durante questa fase di transizione. Allo stesso tempo, la UE dovrebbe promuovere una politica di sviluppo economico per favorire anche gli altri paesi mediorientali in transizione democratica, basata non su aiuti a fondo perduto o sulla penetrazione delle nostre compagnie petrolifere, ma su un commercio equo (fair) e sullo sviluppo, in quei paesi, di economie non concentrate solo sull’industria estrattiva.
Inoltre, l’atteggiamento degli Stati Uniti potrebbe essere condizionato sia dal successo di una soluzione negoziata della amministrazione di Nassiriya, sia da ragioni di opportunità, visto che in America la popolarità del presidente è ormai ai minimi storici.
Come vedi, penso che il ritiro delle truppe sia il primo passo verso una politica di maggiori responsabilità, non basata sul vassallaggio nei confronti dell’amico potente, ma sui principi di pace della nostra Costituzione, e sul senso di responsabilità che compete a tutta l’Unione Europea nel suo ruolo di sistema politico forte, aperto e democratico.
Spero di essere stato sufficientemente visionario.
Un caro saluto.