Hanno almeno un figlio, oltre i 40 anni, il 20,5% delle lesbiche e il 17,7% dei gay italiani. Lo rivela la più vasta indagine scientifica mai condotta sulla popolazione omo-bisessuale del paese. Sotto esame la salute e la vita di relazione di un campione statistico di 10mila persone.
Papà gay, mamma lesbica. In Italia il 17,7% dei gay e il 20,5% delle lesbiche, con più di 40 anni, hanno almeno un figlio. La quota scende ma rimane significativa se si considerano tutte le fasce d’età. Sono genitori un gay o una lesbica ogni venti. Per la precisione il 5% dei primi (il 4,7% è padre biologico) e il 4,9% delle seconde (il 4,5% biologica). A rivelarlo è Modi-di, la più estesa indagine statistica mai condotta in Italia sulla popolazione omosessuale e bisessuale e la prima ad aver riguardato anche l’universo femminile, condotta da Arcigay con il sostegno dell’Istituto superiore di sanità. “L’alto numero di genitori omosessuali è il fatto che colpisce di più, anche se conferma dati analoghi registrati in altri paesi – commenta Sergio Lo Giudice, presidente nazionale di Arcigay -. Questi numeri rimandano alla realtà di almeno centomila bambini o ragazzi italiani con un genitore gay o lesbica. L’abolizione del pregiudizio sociale verso di loro e i loro genitori è un obiettivo primario per la società intera”.
Le donne tendono ad avere relazioni stabili più frequentemente degli uomini. Vivono in coppia il 60,7% delle femmine (8,7% con un uomo) a fronte del 45,7% dei maschi (il 5,5% con una donna). La ricerca riguarda infatti anche la popolazione bisessuale. Tra gli uomini la condizione di coppia aumenta con l’età: in particolare supera la metà del campione oltre i 31 anni. Tra le donne raggiunge un picco tra i 26 e i 30 anni e si stabilizza con una lieve flessione negli anni successivi.
Altre info sul sito ufficiale della ricerca: www.modidi.net.
(Fonte: Gaynews.it, 15 dicembre 2005)
Quanto è bello stare insieme senza stare insieme. Cena romantica, due coccole e poi lui (lei) torna a casa sua, nel proprio lettone, per svegliarsi il mattino dopo in un magnifico silenzio. È l’ultima frontiera delle coppie, un trend sociale ribattezzato «Lat», Living Apart Together, vivere insieme, ma ciascuno per conto proprio. Gli inglesi dell’Ufficio nazionale statistiche hanno calcolato che queste nuove coppie sono almeno un milione, felicemente (s)congiunte per i più svariati motivi: prudenza, convenienza, lavoro.
Su un campione di 5.500 adulti è risultato che tre persone ogni venti uomini e donne tra i sedici e i cinquantanove anni non sposati né conviventi appartengono alla categoria Lat. La fascia più diffusa è tra i trenta e i 34 anni, il venti per cento del totale. Anche in Italia stanno aumentando le relazioni dei single-accoppiati. Già un anno fa un’indagine di Eta Meta Research aveva concluso che lo stile di vita del single è ormai un modello pure per chi non lo è.
Ma sono in tanti ad aver scelto il modo di stare insieme separati. «Vivere separati è il primo passo, viene prima ancora della convivenza che anticipa il matrimonio», ha spiegato al Guardian Johan Hasky, studioso di statistica all’Università di Oxford. Il campione inglese, come l’italiano, è variegato. Si va dal genitore separato che preferisce restare solo per non perdere i benefici fiscali del suo status a quello che non se la sente di cominciare una nuova convivenza con figli in casa, dal professionista che non vuole rinunciare ai suoi spazi alla donna che intende godersi la libertà conquistata. Talvolta è soltanto una fase di passaggio, altre rivela un fortissimo desiderio di mantenere l’autonomia. Non a caso, ha fatto notare sul Times la sociologa Fiona Williams, convivere è più conveniente sul piano economico.
(Fonte: Corriere.it, 17 dicembre 2005)
La famiglia mononucleare, ben lungi dall’essere “società naturale”, come anche oggi l’on. Pera ha sentito il bisogno di ribadire, si rivela sempre più una concrezione storica soggetta a trasformazioni, aperta al proprio possibile superamento. Ce l’aveva già insegnato l’antropologia, analizzando le primitive società matriarcali (alcune ancora esistenti: indimenticabile la testimonianza di Yang Erche Namu ne “Il paese delle donne: una donna moso tracconta la sua vita in una società matriarcale ai confini del mondo” ed. Sperling&Kupfer, 2003), in cui tutte le donne di una famiglia vivono nella stessa casa allevando in comune i bambini e incontrando i propri amanti (non esiste il concetto di marito, né quello di gelosia) nelle ore notturne. Modelli alternativi di famiglia dunque sono esistiti nella storia, e non può essere motivo di stupore che altri ne stiano nascendo. E’ singolare che ai giovani lavoratori e lavoratrici sia richiesta un’assoluta flessibilità nei modi e orari di lavoro, rivoluzionando di fatto i tempi e i progetti di un’esistenza intera, ma da parte dello stesso governo si cerchi di impedire alla famiglia di diventare un’istituzione flessibile, per assorbire l’impatto delle nuove condizioni lavorative, per corrispondere alla mutata autocoscienza femminile e gay, per intercettare una nuova etica che non cerca fondamento nelle leggi divine di una natura immutabile ma nel dialogo immanente e mai concluso con l’altro da sé. Senza attendere le prescrizioni governative, la natura si evolve, la famiglia si fluidifica. Servono meno paure apocalittiche e nuovi diritti, anch’essi concretissimi, inclusivi e in evoluzione.
Gabriella Stanchina