Silviolandia, il paese del Cavaliere, ricorda la descrizione che Stefano Benni dava del mondo di Francesco De Gregori. Conigli volanti, gatti saggi e adolescenti che guardano trasognate dalla finestra il sole far l’amore con la luna. Analogamente, nel rito di fine anno il premier racconta l’Italia e il resto del pianeta come un gigantesco presepe, dove non solo il governo ha mantenuto tutte le promesse, maPutin è sempre stato anticomunista anche quand’ era al Kgb avendo avuto la famiglia decimata nell’assedio di Leningrado (quelli erano i nazisti, ma pazienza); lo scandalo che ha costretto alle dimissioni il governatore della Banca d’Italia è un episodio minore, «in ogni Paese esiste qualche mela marcia», e poi il dimissionario è «uomo probo, rispettoso delle leggi e dotato di grande senso di responsabilità ».
E se nel mondo di De Gregori si affacciava anche un mendicante arabo purtroppo malato, in quello di Berlusconi arabi e israeliani si incontreranno presto «nella nostra città di Erice da noi messa a disposizione compresi i costi di soggiorno » con qualche ristrettezza per il solo Sharon («deve dimagrire, gli ho consigliato la dieta mediterranea»), e faranno finalmente la pace; lui stesso era andato vicino a convincere Bush a non fare la guerra, di concerto con un collega dalla riconosciuta credibilità internazionale, «il colonnello Gheddafi», che sfortunatamente non ha convinto Saddam a trasferirsi in Libia dove gli era stato predisposto «un esilio dorato».
C’è una sola zona d’ombra in questo mondo meraviglioso: comunisti e giornalisti, «i signori dell’opposizione e i politologi dei quotidiani», avviluppati in un torbido intreccio teso a «seminare odio, invidia sociale, pessimismo, disfattismo ». Si era anche preparato per affrontare la domanda dell’inviata dell’ Unità Marcella Ciarnelli, definita «corresponsabile di cento milioni di omicidi» e accolta con la riproduzione della prima pagina del 6 marzo 1953 (listata a lutto per annunciare la morte di Stalin) e delle caricature del «povero De Gasperi», che con la cosiddetta legge truffa aveva avuto il solo torto di anticipare la riforma elettorale berlusconiana.
Il presidente editore ha molto apprezzato anche la prima pagina e il timone del Corriere di ieri («titolo di apertura, più le prime due pagine: è una vergogna!») con la notizia del procedimento avviato dall’Antitrust. Se poi gli accade di incontrare per strada un gruppo di ragazze, «i giornali capovolgono l’episodio: hanno scritto che le avrei ingiuriate chiamandole ignoranti; invece stavo scherzando. Abbiamo anche giocato, a una ho tirato giù il cappello e ci siamo lasciati baciandoci e abbracciandoci». Non tutti i giornalisti sono cattivi, alcuni sono soltanto «birichini», altri «eleganti, intelligenti e simpatici» come l’inviata del Tg3 Mariella Venditti, purtroppo anche lei irrecuperabile: «Non cambierete mai!». Neppure lui. Le citazioni sono sempre quelle.
Contro l’aumento dei prezzi il premier consiglia ancora di «muovere le gambe e andare a controllare nel negozio o nel mercato vicino, come diceva Einaudi»; due Natali fa era mamma Rosa, ma che importa. E’ la sua sicurezza personale, a essere più salda. Ancora l’anno scorso Berlusconi era un uomo assediato dentro il suo stesso schieramento. Oggi, domato Fini, ammansito Casini, cacciato Follini, in attesa di sfidare Prodi il capo è lui. La sua signoria è tale che nel solo mese che resta alle Camere tenterà di imporre l’abolizione della par condicio.
A chi ricorda che l’altra volta aveva giudicato impossibile una riforma proporzionalista, sorride: «È che non pensavo di convincere gli alleati». Si sono convinti. Questo l’ha rafforzato nell’autostima: gli altri leader del G-8, fa sapere, lo considerano «il loro fratello maggiore»; i suoi veri punti di riferimento sono Reagan, Kohl, Aznar e la signora Thatcher, statisti che come lui «hanno avuto bisogno del secondo e talora del terzo mandato per completare il loro ampio piano».
E poi via con la consueta vertigine di numeri: 30 le riforme fatte «più di tutti gli altri esecutivi del dopoguerra messi assieme», 40 le conquiste da comunicare meglio nel mese di gennaio, 100 le aziende sottratte al fallimento «alla luce della mia esperienza imprenditoriale», 150 gli euro donati a chi compra un motorino ecologico, 200 a chi compra un computer, 300 imilitari da ritirare dall’Iraq, 700 i provvedimenti del governo, 1700 i suoi interventi e 13 mila gli obiettivi sensibili controllati dalle forze dell’ordine tra cui i suoi comizi e le partite del Milan. Se poi la vita di qualcuno non è migliorata, è perché le riforme hanno bisogno di tempo (soprattutto quelle del Tfr e delle pensioni, che entreranno in vigore nella prossima legislatura).
Qualche giornalista buono, a saperlo trovare, c’è. Molto apprezzato l’assist della giornalista croata, «signora Sania corrispondente della metà dei giornali di ex Jugoslavia», che rivendica al suo Paese di aver «completamente sconfitto il comunismo». Quando poi Francesco Pionati lo chiude nell’angolo infilzandolo con una domanda affilata come un rasoio («Signor Presidente, come pensa di convincere gli indecisi? »), parte una rapsodia di 17 minuti senza interruzioni, che sospinge la conferenza-stampa oltre il muro delle due ore e il Tg1 alle 14 e 30. E se perdesse le elezioni? «La storia caro mio non si fa con i se e con i ma». «La storia siamo noi» avrebbe detto De Gregori. Lui, invece: «La storia la lasci fare a me, a modo mio».
(Fonte: Corriere.it, 24 dicembre 2005)
C’è un geniale racconto di Philip Dick che conferma come la fantascienza sia, secondo la definizione di Ballard, “la vera letteratura del XXI secolo”. Si intitola “Yancy” ed è la prefigurazione dei caratteri che una dittatura mediatica-televisiva potrebbe assumere in una società moderna. Dick è sufficientemente lucido e avvertito da non immaginarsi telepredicatori apocalittici alla “Quinto potere” e da sapere che un totalitarismo, per essere veramente tale, deve passare inosservato. Un agente segreto terrestre è inviato in missione sulla luna di Callisto dove, secondo l’intelligence, la società sta evolvendo in una direzione totalitaria. Alla dogana viene riconosciuto, ma lasciato comunque passare senza alcuna formalità. Sulla luna non c’è traccia di prigioni speciali, campi di concentramento, censure alla stampa, autocritiche o processi. Recatosi in uno dei quartieri più poveri l’agente attacca discorso con i cittadini in attesa dell’autobus. Si lamenta del governo, delle tasse, dei trasporti e tutti concordano con lui senza esitazione né timore. Perplesso, si ferma a riflettere in un bar e lì assiste a una apparentemente innocua trasmissione televisiva. “Il solito balletto di ragazze nude era finito; sullo schermo apparve la faccia di un uomo. Era una faccia piena, gioviale, sulla cinquantina. Innocenti occhi azzurri, una piega quasi infantile delle labbra.” E’ John Yancy, un uomo del tutto ordinario, che dalla sua linda casetta con giardino, come un almanacco parlante ammannisce agli spettatori filosofia spicciola, battute, massime concise su ogni argomento politico-economico, opinioni sui guai della vecchia Terra. Insiste sempre su Dio, su un governo onesto, sull’importanza di lavorare sodo e sull’essere in ordine. Di tanto in tanto interviene un cambiamento: “non era più lo stesso uomo. Se n’era andata quell’aria bonacciona; sembrava più vecchio, più alto. Un padre dagli occhi severi che parla ai suoi figli: “Amici miei” – intonò Yancy – “Ci sono forze che potrebbero indebolire questo pianeta. Tutto quello che abbiamo costruito per i nostri cari, per i nostri figli, potrebbe esserci tolto da un giorno all’altro. Dobbiamo proteggere la nostra libertà, i nostri beni, il nostro modo di vita.” Yancy è amato dalle masse, è l’uomo che parla con la voce della gente. Tutti seguono i suoi gusti sportivi, il suo stile di vita, ne imitano l’espressione benevola e amichevole. ripetono le sue frasi, apparentemente contraddittorie e inconcludenti: “con tutta la mia anima e il mio cuore, io sono contrario alle guerre inutili ma, ripeto che un uomo deve farsi avanti per combattere una guerra giusta”. “Taverner visionò un centinaio di nastri diversi. Yancy era sempre pronto a pontificare su argomenti vitali e decisivi come la guerra, il pianeta, Dio e le tasse. Ma in realtà non diceva mai niente. Sulle grandi questioni il vuoto assoluto, riempito di frasi altisonanti. Un pubblico in accordo con Yancy era virtualmente in accordo su niente. E su tutto. Su argomenti importanti, la gente non aveva opinioni. Pensava soltanto di averle. Davanti ai suoi occhi, aveva l’esempio del primo stato totalitario realmente riuscito: innocuo e banale.” Dopo avere scoperto che Yancy è in realtà un personaggio virtuale costruito per ordine del governo e delle compagnie commerciali da un migliaio di uomini-yance esperti di comunicazione, l’agente riuscirà a infiltrarsi nel sistema, e a modificare impercettibilmente le opinioni di Yancy introducendo i germi di idee progressiste sul valore della diversità. Ma soprattutto a cambiare in modo subliminale le sue abitudini e le sue passioni in altre più difficili, creative ed “eretiche”: scacchi prussiani al posto del golf, tragedie greche invece di western. Se fosse esistito, Yancy sarebbe stato il migliore amico di Berlusconi. La carriera di Berlusconi-Yancy è vistosamente fallita, ma i segni che lascia sull’immaginario collettivo in termini di imbarbarimento mediatico, vacuità del discorso politico, qualunquismo, servilismo, diffidenza per il pensiero critico sono destinate a durare più a lungo. Servono meno uomini-yance e più uomini e donne che abbiano il coraggio di rischiare, l’orgoglio della propria diversità, l’ardimento di essere “eccentrici”: “Un giorno o l’altro, il suo pubblico avrebbe appreso che a Yancy non piacevano più le oleografie di genere pastorale. Adesso preferiva i quadri di un pittore olandese del quindicesimo secolo, maestro dell’orrore e del diabolico, un certo Hieronymus Bosch.”
Gabriella Stanchina