Delle 6.000 lingue parlate oggi nel mondo ne resteranno, fra un secolo, la metà, cioè 3.000. Il ritmo della loro scomparsa si accelera seguendo i tempi sempre più stretti della globalizzazione economica che porta con sè l’esodo dalle campagne e lo smarrimento degli indigeni nelle metropoli e negli stati più industrializzati. Ed è proprio in questi nuovi ambienti che perderanno progressivamente il loro antico idioma.
AMERICA E AUSTRALIA – Il 96% delle 6.000 lingue diffuse oggi è parlato solo dal 3% della popolazione mondiale: nel 2000 se ne parlavano 1.995 in Africa, 1.780 in Asia, 1.250 nelle Americhe, 1.109 in Nuova Guinea, 234 in Australia, 250 nel Pacifico e 209 in Europa. La morìa delle lingue – secondo gli esperti dell’Unesco, l’organizzazione delle Nazioni Unite che tutela la cultura e la scienza – sarà molto più forte in Australia e in America.
NAVAJO A RISCHIO – «Negli Stati Uniti – spiega al quotidiano parigino Le Monde la linguista Colette Grinevald, docente all’Università di Lione, specialista del mondo americano e collaboratrice dell’Unesco – si parlavano, prima dell’arrivo dei bianchi, 300 lingue. Nel 1992 ne erano rimaste 175 utilizzate almeno da una persona. Nel 2.100 ne resteranno cinque. Anche il navajo, che è la lingua indigena più parlata – da 120.000 persone – rischia di scomparire, perchè sempre meno bambini la imparano».
ALLARME ANOMIA – Con la cancellazione delle lingue scompariranno anche numerose conoscenze, perché proprio gli idiomi locali – osserva Grinevald – «permettono di vedere in modo diverso il mondo e di mostrare le varie sfaccettature del genio umano. In Guatemala io sto lavorando su una lingua a rischio, il poptì, che definisce tutti gli oggetti attraverso la materia della quale sono fatti». «La scomparsa di una lingua – sottolinea ancora la professoressa – può creare inoltre dei problemi d’identità, perché permette di radicarsi in una storia. Nell’America Latina, per esempio, molti hanno dovuto rinunciare alla propria lingua a vantaggio dell’inglese o dello spagnolo, con il risultato di creare un’anomia, una assenza della regola, in cui nessuna delle due lingue è padroneggiata. Una situazione che può diventare fonte di violenza o di autodistruzione, come, fra quelle popolazioni, l’alcolismo o il suicidio».
IL MUSEO DELLA PAROLA – Anche per questi motivi è necessario correre ai ripari per tentare di salvare il salvabile. A febbraio dovrebbe essere presentato all’Unesco il progetto del nuovo Museo della parola, un estremo tentativo di salvare le lingue in via di estinzione, lanciato all’ultima edizione del Festival della scienza di Genova.
LE PIU’ PARLATE – Attualmente le lingue più parlate nel mondo sono il cinese (1.120 milioni di persone), l’inglese (480 milioni), lo spagnolo (320), il russo (285), il francese (265), l’hindi/urdu (250). Nel 2100 maggioritarie saranno le lingue asiatiche, come il cinese e l’hindi, l’inglese, lo spagnolo, l’arabo. Nel continente africano lo swahili, parlato all’est e al centro, e il wolof, in Senegal, sono in pieno sviluppo e stanno divorando le lingue della regione. Secondo l’esperta, l’inglese diventerà una lingua mondiale, «una seconda lingua come veicolo, relativamente semplificata ed adattata al commercio e agli scambi».
(Fonte: Corriere.it, 1 gennaio 2006)
All’intervistatore che nel 1964 le chiedeva cosa le fosse rimasto da salvare della Germania, la filosofa Hannah Arendt, sfuggita agli orrori nazisti, rispose: “La lingua madre”. Non la cultura, di cui pure Arendt si era alimentata, ma che non poteva sfuggire al sospetto di una responsabilità-complicità nella genesi del nazismo, non il popolo, spesso succube o indifferente ai crimini del regime, non il legame di sangue con la terra, ancora impregnato del mito nazista del Blut und Boden. Ma la lingua materna, ultima traduzione possibile della nostalgia per la Heimat perduta che non fosse recuperabile dalla retorica nazionalista. Involucro di parole che ci avvolge fin dalla nostra venuta al mondo, la lingua è come un secondo corpo che ci radica non nella biologia ma nella storia e nella comunità da cui proveniamo. L’esilio e il nomadismo non lo possono totalmente tradurre né tradire. Possedere una lingua, essere posseduti da essa, ci incarna nelle condizioni materiali di vita di un popolo intero. Anche le parole che cercano di trasmettere la conoscenza più astratta sono impregnate della concretezza delle nostre origini. Un “testo”, per esempio, anche quando è ipertesto, è pur sempre un tessuto, è composto di “linee” che sono ancora semplici fili di lino, ha una “trama”, spesso un “diritto” e un “rovescio” che ci parlano dell’arte antica, persino primitiva della tessitura e dell’importanza economica che essa ha assunto nel corso della nostra storia. La lingua è anche un serbatoio di potenzialità infinite, è ciò che ci permette di portare ad espressione i nostri pensieri sostituendo il gesto afasico e disperato della violenza con la dialettica e il confronto, per quanto aspro. Permette l’emersione di un nuovo stile di vita e di nuovi valori, senza che ciò significhi una radicale deterritorializzazione e perdita di dimora. Ci sono piante del deserto che nella stagione secca ritraggono le proprie radici e si lasciano trasportare dal vento in luoghi più umidi e fertili. Ma per gli immigrati che perdono la propria lingua, sopravvivere all’esilio, innestarsi in una cultura altra diventa impossibile: lo spacco alla radice è compiuto. Resta solo una marginalità urbana e socioeconomica che non ha parole per dirsi, testimoniare, denunciare all’infuori della muta ribellione e dei gesti estremi e autodistruttivi. La globalizzazione si riconferma sempre più processo di omologazione: troviamo le stesse merci prodotte in larga scala su tutti i mercati del mondo, la diversità delle coltivazioni pensate per adattarsi alla complessità dell’ambiente senza sfruttarlo lasciano il posto, una volta sottratti i terreni ai loro antichi proprietari, alle monocolture estensive delle multinazionali. Anche la molteplicità delle lingue è una forma preziosa e non adeguatamente tutelata di biodiversità. Scompaiono con esse il frutto di millenarie interazioni tra un popolo e il suo ambiente, un sapere sul mondo che è un patrimonio dell’umano e la cui perdita è irreversibile.
Gabriella Stanchina