4 Gennaio 2006

Il Presidente e la guerra in Iraq

Attualità

…Non è certamente un caso se dagli spalti del centrosinistra quasi nessuno commenta le parole del capo dello stato sulla missione in Iraq. Per quanto sommesso nella forma, quello di Ciampi è infatti un pronunciamento a dir poco imbarazzante per l’Unione, e da diversi punti di vista. Il presidente, all’indomani di un messaggio di fine anno tra i più anonimi e smussati, ha affermato senza perifrasi che l’Italia ha inviato le sue truppe in Iraq solo a «guerra finita». Pertanto non ha partecipato alle operazioni belliche. E’ precisamente la linea che sostengono da sempre il governo e la maggioranza, smentita invece da un’opposizione che, almeno da questo punto di vista, è sempre stata davvero unita.
(Fonte: il Manifesto, 3 gennaio 2006)
Due soldati: Katherine e Edward. Due famiglie: Jordan e Schroeder. Due sentimenti: paura e dolore. La paura dei Jordan sarà mista a orgoglio, il prossimo lunedì, quando accompagneranno all’aeroporto di Kansas City l’unica figlia, una recluta diciannovenne che va in Iraq per «difendere il suo Paese» e perché «spera di guadagnare 15 mila dollari per l’auto nuova». Quello degli Schroeder è il dolore limpido, distillato, di chi ha visto tornare un figlio di 23 anni lo scorso agosto all’aeroporto di Cleveland, uno e trino: un po’ in una bara, un altro po’ in due urne di ceneri recuperate forse in tempi diversi da un cratere di bomba nel deserto di Haditha. La guerra in Iraq (che entra nel quarto anno) vista da due case americane che sono mondi diversi. Il New York Times racconta la partenza della soldatessa Katherine Jordan, la tranquillità scaramantica dei genitori Byron e Mary, le feste in suo onore nel paesino di campagna dove un’assicurazione sulla vita da 400 mila dollari fornita dall’esercito è già un segno di distinzione. Il dolore degli Schroeder non è muto. E’ il grido di un padre che ieri sul Washington Post ha raccontato di «non trovare nessun motivo di gloria, nessun senso di onore» nella morte del suo ragazzo. Sì, certo, «un eroe americano». «Ce l’hanno detto tutti», dice Paul Schroeder. Il colonnello che ha bussato alla porta la mattina della morte, «l’ufficiale che ha dato a mia moglie la bandiera il giorno del funerale», tutte le persone «gentili » che «in buona fede» hanno partecipato al tamtam delle condoglianze. Dentro l’etichetta del «vero eroe americano», dice il padre di Edward Schroeder detto Augie, saltato in aria il 3 agosto 2005 con altri 13 compagni dell’Ohio su un mezzo anfibio dei marines, ci sono le ceneri di «una vita buttata via». «Nella nostra ultima conversazione, Augie si lamentava che non valeva più la pena veder morire i propri compagni: “Papà, non facciamo che tornare a combattere negli stessi villaggi che abbiamo appena liberato”».Un sacrificio inutile. Nella rabbia di Schroeder c’è la logica di chi fa il dirigente in un’azienda commerciale, c’è un’America che non si ritrova più nella partita doppia di questa guerra, che conta i caduti in Iraq e scopre che nel 2005 sono stati 844, solo 4 in meno del 2004. Nè vale, dice il padre di Augie, «la logica distorta di chi ritiene, come fa il presidente Bush, che per onorare i caduti se ne debbano produrne altri». Vale l’opposto: «mio figlio e gli altri non saranno morti invano solo se gli americani smetteranno di nascondersi dietro la maschera dell’eroe avvolto nella bandiera, quando smetteranno di sussurrare la loro opposizione alla guerra». «Vite buttate». Chi sono i caduti? L’altra sera i caccia Usa hanno bombardato una casa di Baji, credendo di colpire tre terroristi in fuga. Ieri mattina hanno tirato fuori dalle macerie 12 corpi. Un reporter iracheno del Washington Post ha visto i cadaveri di una donna anziana, di due bambini che non avevano 10 anni. «Andiamo in Iraq per proteggere il nostro Paese tenendo lontani i guerriglieri», dice serena la soldatessa Katherine Jordan, meccanico della Prima Divisione Corazzata. «I miei amici dicono che in Iraq non si sta male». Ha raccontato alle amiche che vanno al college l’esperienza delle «camere a gas», gli ambienti dove i soldati si addestrano alla guerra chimica. Prima di partire si è fatta tatuaggi per mille dollari, ha due aquile sulle braccia. E un’assicurazione sulla vita da far invidia ai vicini.
(Fonte: Il Corriere della Sera, 4 gennaio 2006)
Ha lasciato l’amaro in bocca il discorso di congedo di Ciampi: nessun cenno alle questioni, che hanno segnato gli ultimi cinque anni della nostra storia, ma piuttosto grande profusione di retorica sui simboli della patria e sul valore fondante della famiglia e, pur nella sua dichiarata laicità, omaggi al Papa in carica e un ricordo commosso del suo predecessore, Wojtyla. E addirittura sorprendenti sono state le dichiarazioni rilasciate all’indomani del discorso di fine anno, volte a giustificare l’intervento delle nostre truppe in Iraq. L’invio dei nostri soldati sarebbe avvenuto a guerra finita, ha detto candidamente il Presidente, e non sarebbe quindi in contrasto con quell’articolo 11 della nostra Costituzione Repubblicana (“l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”), al quale si appella chi ha sempre osteggiato l’intervento armato del nostro Paese nella Seconda Guerra del Golfo.
E’ possibile che molti italiani abbiano la memoria corta e per questo non è male ricordare che la Seconda Guerra del Golfo, iniziata il 20 marzo 2003 senza l’autorizzazione delle Nazioni Unite e con pretesti dimostratisi poi infondati, fu dichiarata finita da Bush il primo maggio 2003: “missione compiuta”, dichiarò trionfalmente il Presidente americano in divisa, dal ponte di una portaerei. L’Italia, però, era stata inclusa nella cosiddetta “coalizione dei volenterosi” già dal 27 marzo 2003 e il nostro Parlamento aveva autorizzato l’intervento militare, con il terzo contingente per numero tra quelli presenti, il 15 aprile 2003, a guerra anche ufficialmente in corso. Solo successivamente l’ONU ha emanato una serie di risoluzioni, che hanno legittimato a posteriori l’intervento in Iraq. La prima, la numero 1483, approvata il 22 maggio 2003, inviava in Iraq il rappresentante dell’Onu. La seconda, la 1500, riconosceva le forze di occupazione, l’autorità provvisoria e il Consiglio governativo iracheno come il legittimo rappresentante del popolo iracheno. Solo nell’autunno 2003 fu approvata la risoluzione 1511, che autorizzava “la Forza multinazionale sotto comando unificato a prendere tutti i provvedimenti necessari per contribuire al mantenimento della sicurezza e della stabilità in Iraq” e che esortava “i paesi membri a dare il proprio contributo, in virtù di questo mandato delle Nazioni Unite, anche con l’invio di forze militari”. Solo a quel punto alcuni paesi non belligeranti, come il Giappone e la Corea del Sud, inviarono truppe in Iraq, anche se con contingenti esigui. Le truppe italiane, invece, erano già lì da un pezzo.
Intanto, a quasi due anni dalla sua fine ufficiale, la guerra continua, e con la stessa ferocia. Sono documentati in modo incontrovertibile l’uso di armi chimiche vietate da tutte le convenzioni internazionali, e il ricorso massiccio alla tortura dei prigionieri. Si continua a combattere casa per casa alla riconquista di quegli stessi villaggi, che si credevano erroneamente già conquistati e i caduti americani nel 2005 sono stati solo 4 in meno di quelli del 2004. Gli attacchi kamikaze sono all’ordine del giorno, mentre da un recente sondaggio di un quotidiano inglese (il Sunday Herald) risulta che il 50% degli iracheni ritiene che gli attacchi contro le truppe britanniche ed americane siano giustificati e l’ 82 % è ” fortemente contrario” alla presenza delle truppe di coalizione. In questo quadro, oltre oceano, la propaganda martellante e la rozza ignoranza di una immensa classe media, che non saprebbe indicare l’Iraq e forse nemmeno l’Asia su di una carta geografica, continua a mandare i propri figli a uccidere per difendere il diritto di un intero paese a consumare le ricchezze del pianeta senza controllo alcuno, salvo poi pentirsene amaramente quando la morte bussa alla porta di casa.
Emilia Giorgetti