I tentativi dell’amministrazione Bush di difendere metodi inumani di interrogatorio e di sfuggire a ogni legislazione contro la tortura hanno gravemente compromesso nel 2005 la campagna per incrementare la difesa dei diritti umani nel mondo. La denuncia è lanciata da Human Rights Watch che ha diffuso un rapporto sulle condizioni dei diritti in 70 paesi nel quale si afferma a chiare lettere che gli abusi commessi dagli Usa nella loro guerra al terrorismo hanno danneggiato la credibilità americana e, cosa ancor più grave, incoraggiato altri paesi ad adottare gli stessi metodi. Nel rapporto, che la Casa bianca ha respinto perché lo ritiene non obiettivo in quanto politicamente motivato, si chiede a Washington di nominare un procuratore speciale e al Congresso di istituire una commissione di inchiesta sugli abusi Usa.
(Fonte: Il manifesto.it, 19 gennaio 2006. Il documento di HRW è disponibile su Hrw.org)
Il documento di Human Rights Watch analizza molte realtà, sicuramente civili e democratiche, quali il Canada, la Gran Bretagna e l’Unione Europea che, al fine di non contraddire l’alleato statunitense o di non compromettere il rapporto con superpotenze strategiche in quanto partner commerciali, come Cina e Russia, hanno consentito l’indebolimento del proprio sistema giuridico di garanzia dei diritti individuali in funzione antiterroristica. Il rischio maggiore, però, non è da reperire al livello dei governanti, ma a quello dei governati. Il rischio cioè del protrarsi di tali abusi nella più assoluta impunità è l’assuefazione dell’opinione pubblica. Molti si chiedono ancora perché il popolo tedesco non si sia ribellato all’erezione dei campi di concentramento. I tedeschi vivevano in uno stato totalitario e l’opinione pubblica in gran parte ignorava i piani di sterminio elaborati dai propri leader. Cinquant’anni dopo, posti di fronte a Guantanamo, i popoli dei paesi democratici, per quanto liberi di esprimersi e sufficientemente informati dai mass-media non hanno mostrato reazioni più vigorose. Per spiegare il fenomeno della guerra e della tortura gli antropologi parlano di pseudospeciazione culturale: per la maggior parte degli animali l’aggressione mortale a un individuo della stessa specie è interdetta. Negli esseri umani avviene un procedimento mentale per cui l’avversario è disumanizzato, le sue caratteristiche distintive razziali, sessuali, religiose sono ingigantite fino a ritenere che l’altro uomo o l’altra donna appartengano a una specie diversa da quella umana e dunque sia lecito l’assassinio. I segnali di richiesta di aiuto che provengono dall’altro non sono più decodificati come linguaggio umano, ma trascurati come si trascura il rumore di fondo di una macchina. Viene da chiedersi a quale addestramento siano sottoposti gli agenti che si occupano delle torture sui prigionieri dell’antiterrorismo. Ma la Storia insegna che anche individui comuni, posti in determinate situazioni, si sono trasformati in “volonterosi carnefici”. E le democrazie dimostrano che a volte un’alchimia di messaggi paranoici provenienti da figure autorevoli (“l’Altro è tra noi e sta per invaderci”) e di sovraesposizione mediatica senza vaglio critico sono sufficienti a tacitare la rivolta delle coscienze, ad assuefare alla violenza. Una lenta educazione all’insensibilità collettiva che corrode le radici della democrazia. Del resto, tutti sappiamo quanto sia facile distogliere lo sguardo e cancellare quella compassione che è il senso dell’umano in noi. Per molti l’infanzia è finita il giorno in cui abbiamo assistito impassibili all’uccisione di un animale. Forse oggi l’infanzia finisce guardando le immagini di guerra nei telegiornali. E ascoltando i genitori commentare: “Passami il sale”.
Gabriella Stanchina