È stata realizzata da Arcigay, grazie all’impegno del Circolo Nuovi Passi di Udine, una mostra di testi ed immagini che descrive il rapporto tra nazismo, fascismo ed omosessualità, con una certa attenzione anche per il lesbismo ed un approccio al dopoguerra.
Le lesbiche, in particolare, durante il nazismo, non ebbero neanche un rango proprio essendo assimilate agli asociali rendendo ancor più difficile oggi l’approfondimento storico in questo campo.
Diverse sono le città coinvolte nelle iniziative oltre a Trieste: Padova, Trento, Milano, Magenta, Bologna, Reggio Emilia, Catania, Molfetta, e Ljubljana.
La mostra “Omocausto Lo sterminio dimenticato degli omosessuali” viene presentata in anteprima a Trieste con l’inaugurazione nella sala delle Commemorazioni della Risiera di San Sabba prevista per sabato 21 gennaio alle ore 11:00.
La medesima mostra viene allestita in Italia a cavallo del 27 gennaio a Trento, Milano, Bologna, Reggio Emilia. Inoltre, in collaborazione con l’Associazione omosessuale Slovena DIH (Društvo za integracijo homoseksualnosti) la mostra Arcigay viene proposta in lingua slovena al pubblico di Ljubljana ed allestita nel Museo di Storia contemporanea della capitale: gode del patrocinio della Presidenza della Repubblica di Slovenia. A Ljubljana sarà disponibile la versione dei testi in lingua italiana e parimenti a Trieste sarà a disposizione la versione dei testi in lingua slovena.
Le iniziative a Trieste hanno ricevuto il Patrocinio della Regione Friuli Venezia Giulia.
Tutte le iniziative Arcigay hanno invece ricevuto l’apprezzamento diretto del Presidente della Repubblica Italiana che le ha considerate parte di quel dovere della memoria per il quale la Giornata della memoria è stata già posta sotto l’alto patronato del Capo dello Stato.
(Fonte: Gaynews.it, 19 gennaio 2006)
Riporto qui sotto la testimonianza che Rudolf Höss, comandante in capo ad Auschwitz scrisse dopo la guerra prima di essere giustiziato dagli Alleati. Nel mio commento di ieri scrivevo che gli esseri umani agiscono talvolta per pseudospeciazione culturale, considerando l’altro come non appartenente alla specie umana, riservandogli quell’attenzione distaccata, oggettivante e classificatoria di cui il primo modello è il rapporto tra lo scienziato e la cavia animale. Questo documento ne costituisce una testimonianza agghiacciante, ma va ricordato che i tentativi di “guarire” l’omosessualità continuarono molto dopo la guerra e vi sono ancora oggi medici, talvolta citati da fonti vaticane, che affermano la possibilità di una terapia per la “devianza gay”. Va ricordato a chi porge loro ascolto il caso del medico danese delle SS Carl Vernaet che nel suo laboratorio di Buchenwald sperimentò trattamenti massicci di testosterone sui “triangoli rosa”dividendoli in tre categorie:
• Omosessuali incalliti (che amano lavorare a maglia o ricamare)
• Omosessuali irrequieti (che oscillano tra virilità e indifferenza omosessuale)
• Omosessuali problematici (recuperabili sotto l’aspetto psicologico)
A distanza di tre settimane l’80% delle persone operate era deceduto. Dopo la guerra, l’organizzazione nazista Odessa aiutò Vaernet a fuggire in Argentina dove trovò immediatamente lavoro presso il ministero della sanità riprendendo i suoi studi sull’ormone sintetico. Kjeld Vaernet neurochirurgo e figlio del medico di Buchenwald collaborò con il dott. Walter Freeman che negli anni Cinquanta sottopose 4.000 pazienti a cure ormonali destinate a stabilire una cura per l’omosessualità. Kjeld si distinse negli anni 60 per i suoi studi sulla lobotomizzazione degli omosessuali. Vaernet morì tranquillamente nel proprio letto nel 1965. La fine serena di un rispettabile cittadino a cui il pregiudizio sociale aveva concesso il privilegio di negare lo statuto umano a persone “irriducibili alla norma”.
Gabriella Stanchina
“Già a Dachau gli omosessuali erano stati un problema per il campo, sebbene non fossero così numerosi come a Sachsenhausen.
Il comandante e lo Schutzhaftlagerführer erano dell’opinione che fosse molto più opportuno suddividerli per tutte le camerate del campo, mentre io ero d’avviso contrario, avendoli conosciuti molto bene in carcere. Non passò molto tempo che da tutti i blocchi cominciarono a giungere denunce di rapporti omosessuali, e le punizioni non servirono a nulla, perchè il contagio si diffondeva dovunque.
Su mia proposta, tutti gli omosessuali vennero allora messi insieme e isolati dagli altri, sotto la guida di un anziano che sapeva come trattarli. Anche sul lavoro vennero separati dagli altri prigionieri, e adibiti per un lungo periodo a lavorare con i rulli compressori, insieme ad altri prigionieri di altre categorie, affetti dal medesimo vizio. Di colpo il contagio del loro vizio cessò, e anche se qua e là si verificarono questi rapporti contro natura, si trattò sempre di casi sporadici. Del resto, costoro vennero sorvegliati rigorosamente nei loro alloggiamenti, in modo che … non potessero ricominciare… .
A Sachsenhausen, fin dal principio gli omosessuali vennero posti in un blocco isolato, e ugualmente vennero isolati dagli altri prigionieri durante il lavoro. Erano adibiti ad una cava di argilla di una grande fabbrica di mattonelle; era un lavoro duro, e ciascuno doveva assolvere una determinata norma. Inoltre, erano esposti a tutte le intemperie, perché ogni giorno doveva essere fornita una determinata quantità di materiale finito, e il processo di cottura non poteva essere interrotto per mancanza di materia prima. Così estate o inverno, erano costretti a lavorare con qualunque tempo.
L’effetto di quel duro lavoro, che avrebbe dovuto servire a riportarli alla «normalità», era differente a seconda delle diverse categorie di omosessuali.
I risultati migliori si ottenevano con i cosiddetti «Strichjungen». Nel dialetto berlinese erano chiamati così quei giovani dediti alla prostituzione, che intendevano per tal via guadagnarsi facilmente da vivere, rifiutando di compiere qualunque lavoro, sia pure leggero. Costoro non potevano assolutamente essere considerati dei veri omosessuali, poiché il vizio era per essi soltanto un mestiere, e quindi la dura vita del campo e il lavoro faticoso furono per essi di grande utilità. Infatti, nella maggioranza, lavoravano con diligenza e cercavano con ogni cura di non ricadere nell’antico mestiere, poiché speravano così di essere rilasciati al più presto. Arrivavano al punto di evitare addirittura la vicinanza dei veri viziosi, volendo in tal modo dimostrare che non avevano nulla a che fare con gli omosessuali. Molti di questi giovani così rieducati vennero rilasciati senza che si verificassero delle ricadute; la scuola che avevano fatto al campo era stata abbastanza efficace, tanto più che si trattava in maggioranza di ragazzi molto giovani.
Anche una parte di coloro che erano diventati omosessuali per una certa inclinazione – coloro che, saturi di provare il piacere con le donne, andavano in cerca di nuovi eccitamenti, nella loro vita da parassiti – poté essere rieducata e liberata dal vizio.
Non così quelli ormai troppo incancreniti nel vizio, cui si erano volti per inclinazione. Questi ormai non potevano più essere distinti dagli omosessuali per disposizione naturale, che in realtà erano pochi. Per questi non servì né il lavoro, per quanto duro, né la sorveglianza più rigorosa: alla minima occasione erano subito uno nelle braccia dell’altro, e anche se fisicamente erano ormai mal ridotti, perseveravano nel loro vizio.
Del resto, era facile riconoscerli. Per la leziosità femminea, per la civetteria, per l’espressione sdolcinata e per la gentilezza eccessiva verso i loro affini, si distinguevano assai bene da coloro che avevano voltato le spalle al vizio, che volevano liberarsene, e la cui guarigione, ad una attenta osservazione, si poteva seguire passo passo.
Mentre quelli che intendevano realmente guarire, che lo volevano fortemente, sopportavano anche i lavori più duri, gli altri decadevano fisicamente giorno per giorno, più o meno lentamente secondo la loro costituzione.
Non volendo, o non potendo, liberarsi del loro vizio, sapevano benissimo che non sarebbero più tornati in libertà, e questo pesante fardello psichico affrettava, in queste nature in genere anormalmente sensibili, la decadenza fisica. Quando poi vi si aggiungeva la perdita dell’«amico», per una malattia o addirittura per la morte di questi, era facile prevedere l’esito finale; parecchi, infatti, si uccisero. L’«amico» era tutto per costoro, nel campo. Parecchie volte si verificò anche il doppio suicidio di due amici.
Nel 1944 I’SS-Reichsführer fece compiere a Ravensbruck degli esami di «riabilitazione». Gli omosessuali della cui guarigione non si era perfettamente convinti, vennero messi a lavorare, come per caso, insieme a prostitute, e tenuti sotto osservazione. Le prostitute avevano il compito di avvicinarsi come per caso ad essi e di eccitarli sessualmente.
Quelli che erano realmente guariti approfittavano senz’altro dell’occasione, senza neppure bisogno di essere stimolati, mentre gli incurabili non guardavano neppure le donne. Anzi, se esse si avvicinavano loro in modo troppo evidente, si allontanavano con manifesto disgusto.
Secondo la procedura, a quelli che stavano per essere rilasciati venivano offerte occasioni di stare con individui del loro sesso. Quasi tutti rifiutavano questa possibilità e respingevano energicamente tutti i tentativi di avvicinamento dei veri omosessuali.
Vi furono però anche dei casi limite, che accettarono e l’una e l’altra occasione. Non so se costoro potrebbero essere definiti dei bisessuali. In ogni caso, fu molto istruttivo per me poter studiare la vita e gli stimoli degli omosessuali di ogni genere e osservare le loro reazioni psichiche in relazione alla prigionia”.
(Rudolf Hoss, Comandante ad Auschwitz, Einaudi)