Voglio scrivere del Giorno della Memoria con parole non mie. Voglio scriverne con le parole del più bel libro che abbia mai letto: il Diario 1941-1943 di Etty Hillesum. Etty era una ragazza ebrea olandese. Di brillante intelligenza e appassionata sensibilità, negli anni in cui inizia la redazione dei suoi diari si era già laureata in Giurisprudenza e aveva iniziato ad Amsterdam gli studi presso la facoltà di Lingue Slave. Dai diari traspare l’immagine vivida di lei, raccolta nella sua piccola stanza, mentre studia il russo, traduce Dostoevsky, legge le amate poesie di Rilke, contempla il cielo o un fiore ala finestra, sempre tesa tra la profondità degli interrogativi esistenziali e l’amore sollecito e pieno di grazia per le cose umili e minute. Intorno a lei, l’orrore incombe. Nel maggio 1940 i tedeschi hanno invaso l’Olanda. Nel febbraio 1941 la popolazione si rivolta contro i pogrom antisemiti e i nazisti reagiscono inasprendo la repressione contro gli ebrei e la resistenza olandese. Gli ebrei vengono licenziati, l’accesso ai negozi “ariani” è loro precluso, la stella gialla è imposta come marchio di riconoscimento. Intere zone della città sono precluse agli ebrei, e anche Etty deve percorrere in bicicletta tragitti sempre più lunghi per tornare a casa, finché anche l’uso della bicicletta sarà vietato. Gli amici con cui aveva condiviso lunghe discussioni sull’antisemitismo e sulla nuova Europa che i giovani avrebbero dovuto ricostruire dalle macerie della guerra partono uno dopo l’altro per il campo di smistamento di Westerbork. A Etty viene offerta una via d’uscita: trova un posto di lavoro come dattilografa presso il Consiglio Ebraico, organismo creato dietro pressione tedesca per fare da tramite tra i nazisti e la popolazione ebraica. Potrebbe salvarsi e fuggire. Invece preferisce caricarsi del dolore che la circonda, entrare in comunione con il destino del suo popolo, cercare di portare la sua fiamma minuta nell’inferno, essere, come lei dirà: “il cuore pensante della baracca”. Parte volontariamente per Westerbork, dove resterà con la sua famiglia fino al 1943. Nonostante le pessime condizioni di salute, riesce ad annodare i legami con la Resistenza, sostenere gli altri prigionieri con la sua personalità luminosa, lasciare che dentro di sé si compia la battaglia tra la cognizione dell’orrore e del travaglio insensato della vita muta a cui il regime concentrazionario cerca di ridurla e la sua fede nella stupefacente bellezza della vita. Il 7 settembre 1943 Etty sale sul treno che la porta ad Auschwitz. Riesce a gettare dal treno un’ultima cartolina, a testimonianza di una resistenza ininterrotta: “Abbiamo lasciato il campo cantando”. Morirà ad Auschwitz il 30 novembre 1943. Le citazioni sono tratte da: Etty Hillesum, Diario 1941-1943, Adelphi 2004. Vi prego: leggetelo, fatene dono alle persone che amate.
Gabriella Stanchina
“Ieri pomeriggio abbiamo scorso insieme le note che mi aveva dato [lui è lo psicologo Julius Spier, il grande amore nella vita di Etty]. Quando siamo arrivati alla frase: basta che esista una sola persona degna di essere chiamata tale per poter credere negli uomini, nell’umanità, m’è venuto spontaneo di buttargli le braccia al collo. E’ un problema attuale: il grande odio per i tedeschi che ci avvelena l’animo. Espressioni come: “che anneghino tutti, canaglie, che muoiano col gas” fanno ormai parte della nostra conversazione quotidiana; a volte fanno sì che uno non se la senta più di vivere di questi tempi. Ed ecco che improvvisamente, qualche settimana fa, è spuntato il pensiero liberatore, simile a un esitante e giovanissimo stelo in un deserto d’erbacce: se anche non rimanesse che un solo tedesco decente, quest’unico tedesco meriterebbe di essere difeso contro quella banda di barbari, e grazie a lui non si avrebbe il diritto di riversare il proprio odio su un popolo intero.”
“Ieri, per un momento, ho pensato che non avrei potuto continuare a vivere, che avevo bisogno d’aiuto. La vita e il dolore avevano perso il loro significato, avevo la sensazione di sfasciarmi sotto un peso enorme, ma anche questa volta ho combattuto una battaglia che all’improvviso mi ha permesso di andare avanti con maggior forza. (…). Mi sento come un piccolo campo di battaglia su cui si combattono i problemi del nostro tempo. L’unica cosa che si può fare è offrirsi umilmente come campo di battaglia. Quei problemi devono pur trovare ospitalità da qualche parte, trovare un luogo in cui possano combattere e placarsi, e noi, poveri piccoli uomini, dobbiamo aprir loro il nostro spazio interiore, senza sfuggire.”
“A volte vorrei essere nella cella di un convento, con la saggezza di secoli sublimata sugli scaffali a con la vista che spazia su campi di grano. Lì vorrei sprofondarmi nei secoli, e in me stessa. E alla lunga troverei pace e chiarezza. Ma questo non è poi tanto difficile. E’ qui, ora, in questo luogo e in questo mondo, che devo trovare chiarezza e pace e equilibrio. Devo buttarmi e ributtarmi nella realtà, devo accogliere e nutrire il mio mondo esteriore con il mio mondo interiore.”
“Pensavo: com’è strano. C’è la guerra. Ci sono campi di concentramento. Piccole barbarie si accumulano di giorno in giorno. Camminando per le strade, io so che in quella casa c’è un figlio in prigione, in quell’altra un padre preso in ostaggio, o un figlio diciottenne condannato a morte. Conosco il grande dolore umano che si accumula, la persecuzione e l’oppressione, l’odio impotente e il sadismo: so che tutte queste cose esistono e continuo a guardar bene in faccia ogni pezzetto di realtà nemica. Eppure, in un momento di abbandono, io mi ritrovo sul petto nudo della vita , e le sue braccia mi circondano così dolci e protettive, e il battito del suo cuore così lento e regolare e così dolce, quasi smorzato, ma così fedele, come se non dovesse arrestarsi mai, e anche così buono e misericordioso. Io sento la vita in questo modo, né credo che una guerra, o altre insensate barbarie umane, potranno cambiarvi qualcosa.”
“Stamattina pedalavo lungo lo Stadionkade e mi godevo l’ampio cielo ai margini della città, respiravo l’aria fresca non razionata. Dappertutto c’erano cartelli che ci vietano le strade per la campagna. Ma sopra quell’unico pezzo di strada che ci rimane c’è pur sempre il cielo, tutto quanto. Non possono farci niente, non possono veramente farci niente. (..). Trovo bella la vita e mi sento libera. I cieli si stendono dentro di me come sopra di me. Credo in Dio e negli uomini e oso dirlo senza falso pudore. La vita è difficile, ma non è grave. E una pace futura potrà esser veramente tale solo se prima sarà stata trovata da ognuno in se stesso – se ogni uomo si sarà liberato dall’odio contro il prossimo, di qualunque razza o popolo e l’avrà trasformato in qualcosa di diverso, forse alla lunga in amore se non è chiedere troppo. Sono una persona felice e lodo questa vita, la lodo proprio, nell’anno del Signore 1942, l’ennesimo anno di guerra.”
“Se sopravviverò a questo tempo e se allora dirò: la vita è bella e ricca di significato, bisognerà pur credermi. Se tutto questo dolore non allarga i nostri orizzonti e non ci rende più umani, liberandoci dalle piccolezze e dalle cose superflue di questa vita, è stato inutile.”
“La miseria che c’è qui è veramente terribile – eppure alla sera tardi, quando il giorno si è inabissato dietro di noi, mi capita spesso di camminare di buon passo lungo il filo spinato, e allora dal mio cuore si innalza sempre una voce – non ci posso far niente, è così, è di una forza elementare – e questa voce dice: la vita è una cosa splendida e grande, più tardi dovremo costruire un mondo completamente nuovo. A ogni nuovo crimine o orrore dovremo opporre un nuovo pezzetto di amore e di bontà che avremo conquistato in noi stessi. Possiamo soffrire ma non dobbiamo soccombere. E se sopravviveremo intatti a questo tempo, corpo e anima ma soprattutto anima, senza amarezza, senza odio, allora avremo anche il diritto di dire la nostra parola a guerra finita. Forse io sono una donna ambiziosa: vorrei dire anch’io una piccola parolina.”