30 Gennaio 2006

Il paradiso della Coca Cola

Attualità

Tutto iniziò con una stoltezza. Ciò che venne dopo, gli scambi di persona, i coltelli, le armi, i 27 morti, la rabbia, il terrore, i funerali e le vendette, tutto derivò da quella stupidità. L’insensatezza è pericolosa perché, se si insiste, diventa malvagità. Questa è una storia lunga e scabrosa e va raccontata sin dall’inizio, quando nessuno avrebbe pensato che si sarebbe arrivati a tanto, per finire poi in nulla o addirittura in oblio.
La stupidità fu quella di John C. Trotter, titolare della concessione della Coca Cola in Guatemala. Chi volesse capire cos’è una multinazionale, dovrebbe provare a fare la pubblicità per una compagnia come la Coca Cola in un piccolo paese del Terzo mondo. Il famoso logo della bibita gasata ha un colore rosso acceso: se un giornale pubblica un inserto con quel logo e il colore non è esattamente quello voluto dalla prestigiosa compagnia nordamericana, non viene pagato, perché il marchio deve essere quel rosso e non uno simile. Ma queste sono sciocchezze in confronto a quello che stiamo per raccontare.
I lavoratori della Coca Cola in Guatemala non avevano un sindacato e Trotter odiava quel tipo di organizzazioni, perché gli sembravano retaggio del comunismo, dottrina che il padrone odiava con tutta la sua anima. Ma una sua idea fece nascere il sindacato e in questa vicenda si può constatare come un’azione capziosa può rivoltarsi contro il furbo che la propone.
Troppa anzianità
Il signor Trotter riteneva che ormai i suoi dipendenti avessero accumulato troppa anzianità e che, in caso di licenziamento, avrebbero avuto diritto a troppi soldi, quindi decise di licenziare in tronco tutti i suoi dipendenti e il giorno dopo li riassunse. Con questa mossa, quella volpe di Trotter aveva azzerato l’anzianità di tutti. Ma commise l’errore di non prendere in considerazione il fatto che la sopportazione della gente arriva fino a un certo punto. Il conflitto infatti esplode spesso per motivazioni banali. I lavoratori avevano deciso infatti di formare un sindacato e di proporre alla multinazionale un negoziato: «Un negoziato? Ma cosa si credono questi analfabeti?», reagì Trotter, e li mandò tutti al diavolo. Il tira e molla fra padrone e operai durò due anni; alla fine, nel 1976, la fabbrica venne occupata e i titolari decisero di chiamare la polizia che intervenne con decisione: quattordici operai finirono in ospedale e dodici in galera. Era solo l’inizio. Questi atti di resistenza finivano sempre con un episodio violento. Sembravano fatti isolati, sporadici, e invece erano legati l’uno all’altro, in una catena che sarebbe stata senza fine.
Gli autisti, i facchini, i venditori ambulanti non mollarono e a quel punto i dirigenti della Coca Cola decisero di passare alle maniere forti e di rivolgersi direttamente al capo della polizia, il colonnello Germán Chupina Barahona, famoso per cinismo e crudeltà. Alcuni membri delle forze di sicurezza dello stato furono allora nominati capo del personale, capo magazziniere e capo controllo della fabbrica, trasformando l’industria in una grande caserma. I lavoratori si spaventarono, ma insistettero ugualmente nelle loro rivendicazioni. D’altro canto, cosa potevano fare, se non ribadire di avere ragione?
Fu così che si giunse al primo attentato. Il 10 febbraio 1977, due membri del sindacato, Àngel Villegas e Oscar Sarti vennero colpiti da una sventagliata di mitra mentre andavano verso la fabbrica. Salvarono la pelle, ma rimasero feriti. Pochi giorni dopo, il 2 marzo, i consulenti giuridici del sindacato, Gloria de la Vega e Enrique Torres, furono feriti in un secondo attentato. Dopo l’avvertimento decisero di rifugiarsi in esilio.
La schizofrenia della situazione era notevole: mentre all’interno della fabbrica si minacciava, si sparava, si viveva nel terrore, all’esterno la Coca Cola ostentava un’immagine idilliaca, continuando a vendere e a pubblicizzare il prodotto come se fosse altra cosa e non la causa scatenante del conflitto. Nella pubblicità bellissimi ragazzi di tutto il mondo cantavano motivi orecchiabili («We are the world…»), basi musicali degli slogan felici della bibita gassata: «La chispa de la vida» («la scintilla della vita»). E come si poteva bere un buon Cuba Libre senza Coca Cola?
Nel febbraio del 1978 si arrivò alla firma del patto collettivo, ma questa vittoria apparente si tramutò, in realtà, in una sconfitta.
Il terzo attentato infatti fu mortale: il 12 dicembre 1978 Pedro Quevedo, il primo segretario del sindacato, venne assassinato. Ignoti armati lo uccisero mentre, nella cabina del suo camion distributore di bibite, attendeva un altro collega per scaricare la merce. Era un chiaro segnale, ma ci fu un coraggioso che accettò di succedere nell’incarico a Quevedo.
Si chiamava Israel Márquez e dimostrò di avere più vite di un gatto: scampò senza un graffio ad una prima imboscata e dovette vivere in semiclandestinità, perché gli squadroni della morte lo braccavano per farlo fuori. Dormiva ogni sera in case diverse e in un secondo attentato un altro compagno, di nome Moscoso, morì al suo posto. La moglie, Gladys Castillo, rimase gravemente ferita e a quel punto, poiché degli innocenti incominciavano a pagare per lui, Márquez decise di andare in esilio. Gli successe Manuel López Balam.
Il sesto attentato (Márquez ne aveva subiti due) fu messo in atto il 5 aprile 1979. Come Márquez e Quevedo, López Balam era l’autista di un camion. Fu sgozzato sul posto di guida e al suo corpo furono inferte 17 coltellate. A quel punto era chiaro che essere segretario del sindacato della Coca Cola significava automaticamente diventare un uomo morto. Ma ci sono momenti in cui, quando qualcuno viene chiamato a rappresentare gli altri, anche se ciò può costare la vita, si sceglie ugualmente di accettare questo rischio, perché il tirarsi indietro è lontano dalla propria natura. Così Marlon Mendizábal accettò di essere eletto successore di López Balam.
A quel punto si perse il conto degli attentati: il 1ý maggio 1980, furono sequestrati Ricardo García e Arnulfo Gómez. Il cadavere di Ricardo apparve poco dopo a 100 chilometri dalla capitale orrendamente mutilato insieme a quello di Arnulfo, trovato non molto lontano dal suo amico. Nello stesso mese, uguale sorte toccò a René Reyes, un altro sindacalista. Il terrore ormai incombeva sui lavoratori della fabbrica.
45 pallottole in corpo
L’attentato contro Marlon Mendizábal, il nuovo segretario del sindacato, fu solo uno dei tanti: il 27 maggio 1980 Mendizábal uscì dal lavoro per prendere l’autobus quando una raffica di mitra lo crivellò sul marciapiede con 45 pallottole in corpo. Fu eletto suo successore Mercedes Gómez. Naturalmente, anche lui aveva i giorni contati, ma si salvò per un banale scambio di cappelli. Gómez, infatti, aveva regalato il suo a un amico, Edgar Aldana, che fu catturato, torturato e ucciso al suo posto. Uno scambio di sombreri lo aveva risparmiato.
Quel giorno crudele era un sabato. Quando vennero a sapere del rapimento di Aldana, i dirigenti sindacali a livello nazionale decisero di riunirsi nel pomeriggio. Quello che stava succedendo alla Coca Cola era troppo, anche se, va ricordato, il resto del paese non se la stava passando meglio. Quel 27 maggio `80 si riunirono i 27 membri della Confederazione nazionale del lavoro per discutere il caso: furono sequestrati tutti, torturati e uccisi.
A quel punto, non ci fu più sindacato né della Coca Cola, né di nessun’altra fabbrica. Era prevalsa la soluzione più radicale, la soluzione finale. La fine del sindacato della Coca Cola, senza contare i 27 leader nazionali, era costata 8 dirigenti morti, due scomparsi e sei feriti, anche se bisogna ricordare anche che i guerriglieri delle Far avevano ucciso per vendetta il capo del personale e un militare in pensione di nome Francisco Javier Rodas.
Nel frattempo in Guatemala, ora che dicono sia tornata la democrazia, questi delitti sono ancora impuniti. In compenso si continua a bere la famosa bibita, la cui formula è conservata nel più rigoroso segreto. Si dice che la Coca Cola sia capace di sciogliere una monetina se la si immerge per una notte in un bicchiere di questa bibita, oppure che contenga qualche misteriosa droga. Certo fa dei bellissimi spot pubblicitari, con l’accattivante slogan: «La scintilla della vita!». Come ironia macabra non c’è male.
(Fonte: il Manifesto, 24 gennaio 2006)