Non contano molto, e così nessuno li ha contati con precisione. Ma sono tanti, centinaia di migliaia, e non perdono occasione per parlare e parlarsi, soprattutto via Internet ma adesso anche a qualche sportello sindacale. Sono gli stagisti italiani. Senza titolo, diplomati o laureati; baristi, commesse, informatici o giornalisti; giovani, ma anche maturi disoccupati, da Torino a Catania. Hanno in comune l’articolo 18: non quello famoso e storico dello Statuto dei lavoratori su cui il governo tentò inutilmente l’affondo, ma un articolo 18 più piccolo e giovane. L’art. 18 legge 196 del 1997, detta Treu, che con il titolo ‘tirocini formativi’ ha introdotto la chiave magica, lo strumento più facile e flessibile per entrare nel mondo del lavoro. Ma anche per uscirne rapidamente, e poi rientrare, e poi ri-uscire. Con il rischio, denunciato dai colleghi francesi che sono scesi in piazza a Parigi per il primo sciopero nella breve storia della categoria, di diventare ‘stagisti a tempo indeterminato’.
Lavorare gratis “Al primo stage facevo salti di gioia. Otto ore di lavoro al giorno più tre di spostamenti Como-Milano andata e ritorno, nessuna retribuzione, nessun rimborso spese, e mi sembrava di toccare il cielo con un dito”, racconta Matteo, che ha debuttato nel mondo degli stagisti a 22 anni, a metà del suo corso di laurea in Economia. I primi lavori, i primi passi nel mondo del marketing e della pubblicità (e che passi: alla Saatchi & Saatchi), la prima timida richiesta di un rimborso spese al sesto mese di tirocinio (accolta: 200 euro al mese), la soddisfazione di vedere i suoi prodotti arrivare senza correzioni al cliente, e altri sei mesi di rinnovo, sempre con 200 euro al mese. E nel frattempo gli studi e la laurea alla Cattolica: 110 e lode, indirizzo marketing e comunicazione. Un percorso perfetto, senonché, “finito il periodo massimo di stage, cioè un anno, mi hanno detto che i tempi erano duri, e contratti non potevano farne”. Matteo per non perdere tempo si specializza: tre mesi all’estero per la lingua, più un master in Italia. Non vedendo neanche l’ombra di un contratto all’orizzonte, Matteo va a fare un colloquio a Mediaset per un altro stage. “Qui ho chiesto, a titolo informativo, se era previsto un rimborso spese e mi hanno detto che mi avrebbero fatto sapere. Non mi hanno più chiamato, mi ha telefonato invece il responsabile del master chiedendomi perché mai avessi tirato fuori quella storia dei soldi. A 26 anni, con laurea, master e un anno di tirocinio già fatto, non si può neanche osare chiedere i ticket restaurant”.
La zona grigia Quello di Matteo non è un caso limite. Pensato come strumento per connettere la formazione e il lavoro, lo stage è diventato rapidamente un’enorme zona grigia. Gli stage promossi dalle università, secondo un’indagine della Conferenza dei rettori che ha coinvolto 40 atenei, sono stati 52.800 nello scorso anno accademico, per un totale di 30.400 imprese. E gli stagisti-dottori sono solo una minoranza sul totale dei tirocinanti. I soggetti promotori infatti sono numerosi: affianco alle università, ci sono scuole, centri per l’impiego, enti bilaterali, sindacati, associazioni di datori, privati non profit, comunità terapeutiche e altro ancora. Gli utilizzatori sono ancora più numerosi. Secondo il rapporto Excelsior-Unioncamere, un’impresa su dieci in Italia ha ospitato stagisti nel 2004. Molto forte la presenza di stage nella grande impresa (quasi il 70 per cento delle imprese con più di 500 addetti ne ha usati) e nei servizi: in particolare nel credito e nella sanità, negli alberghi e nell’istruzione privata. Oltre alle imprese, tra gli utilizzatori di stage ci sono poi Stato ed enti pubblici, studi professionali e negozi, fino al bar sotto casa. In tutto ciò, avere numeri certi sugli stage è impossibile. Dopo averli ‘battezzati’ con il nuovo articolo 18, mamma-Stato ha rinunciato a seguirne la sorte. Nemmeno l’Inail, dove pure tutti gli stagisti vanno iscritti per l’assicurazione, sa quanti sono, giacché all’atto dell’iscrizione non vengono distinti da un lavoratore a tempo indeterminato o da una colf. Bisognerebbe dunque rintracciarli regione per regione, e poi metter loro il sale sulla coda per sapere cosa succede dopo lo stage.
Qualcuno lo ha fatto. Alla Bocconi, grazie a un’indagine Eurisko, sanno che dei circa 3 mila stage post-lauream dei propri pupilli, uno su due sbocca in un rapporto di lavoro, per la maggior parte contratti di collaborazione o a termine e prevalentemente nel settore della finanza e del mercato. Percentuali da privilegiati, che riguardano la fascia altissima delle decine di migliaia di stage che ogni anno si promuovono in Lombardia. Poco lontano, troviamo numeri ufficiali ma meno confortanti: l’Agenzia del lavoro del Piemonte, che alle imprese ha chiesto di mandare i dati via e-mail e non in plichi di carta che negli ispettorati del lavoro di tutt’Italia aspettano di essere sfogliati, è in grado di dire chi sono e dove finiscono gli stagisti piemontesi. Su 7.985 tirocini conclusi nel 2004, hanno trovato lavoro in circa 700: l’8,7 per cento, per la gran parte con contratti atipici o a tempo determinato, e solo nel 2,27 per cento dei casi in contratti a tempo indeterminato. Dagli stessi dati piemontesi si vede anche che la gran parte degli stage riguarda bassi livelli di istruzione (quasi la metà ha chiuso con la terza media) e si conferma la prevalenza del settore dei servizi, con quota quasi doppia rispetto all’industria. Gabriella Manna, responsabile dei tirocini in Piemonte, invita a non enfatizzare il tasso di insuccessi: “Lo strumento degli stage è valido per far entrare i giovani nelle imprese, poi se le assunzioni sono poche la colpa è dello stato più generale dell’economia e del mercato del lavoro”.
Trappole e cioccolatini Una situazione di crisi nella quale molti ‘ci marciano’. “Se due gelaterie chiedono tirocinanti da giugno a settembre a 7-800 euro al mese, è chiaro che si tratta di lavoro a termine, non di formazione”, dice Patrizia Mazza, della Filcams-Cgil di Modena. Che dal primo dicembre ha aperto uno sportello contro i tirocini-truffa, che nel terziario abbondano: “Si va dal barista di 38 anni che, dopo aver chiuso il suo esercizio, viene preso come tirocinante in un altro bar, agli stage da commessa il cui scopo formativo ufficiale è imparare ad allestire la merce e verificare le date di scadenza”. Sul sito dell’Agenzia Sirio del Lazio si leggono richieste di stage quantomeno sospette: ‘Cercasi una stagista per mansioni di addetta alle vendite, 38 ore settimanali 400 euro mensili’; ‘Stage offresi per un operatore di telemarketing part-time, per la gestione di campagne telefoniche’, eccetera. Tutti finti stage, per risparmiare sui contributi e non avere impegni di alcun tipo verso gli stagisti. I quali affollano siti e chat raccontando le truffe subite, a livelli alti e bassi, da ristoranti o da studi professionali. Un artista, Alessandro Nassiri, ha avuto l’idea di farsi ‘consegnare’ via Internet le ore di stage non retribuito e trasformare quell’energia in barrette di cioccolato da ridistribuire in un simbolico Giubileo degli stagisti: la sua mostra-allestimento ha avuto enorme successo, il sito ha fatto un pienone e la cioccolata è finita presto. Ventimila contatti in poche settimane, migliaia di storie, quasi tutte di stagisti anonimi “perché non mi posso esporre, il lavoro lo devo ancora trovare”: come ‘MeriCri’, sei mesi da commercialista nel periodo delle dichiarazioni dei redditi (lavoro sei giorni su sette per 450 euro) e ‘Belise Maha’, stesso tirocinio da commercialista, passata dai 300 euro dei primi sei mesi ai 400 del secondo semestre. Ma c’è anche chi rimpiange la vita da tirocinante: ‘Ghost writer’, laureato in Scienza delle comunicazioni, master in marketing a Chicago, dice che il suo stage è stato “un periodo aureo. Quando è finito mi hanno fatto un contratto di tre mesi, ma la retribuzione è scesa dell’8 per cento, perché costo di più all’azienda”. E c’è chi dice no, senza pseudonimi. Come Chiara Filios, architetta milanese di 28 anni, che ha rifiutato tre offerte di tirocinio gratuito o con minimo rimborso spese e infine ha trovato uno studio con condizioni dignitose: “Nessuno chiede il lavoro a vita, sappiamo che il posto fisso non è un diritto. Ma il lavoro deve essere serio, riconosciuto. Non umiliante. Se si accetta si è complici”.
(Fonte: l’Espresso, 30 gennaio 2006)