LALTRA faccia della medaglia del declino economico è il conflitto intergenerazionale, quello fra giovani e anziani. Chi si candida a governare il Paese dopo le prossime elezioni ha il dovere di dirci fin d’ora come intende affrontarlo. Da quanto si intuisce da questa rissosa campagna elettorale, si sta solo lavorando ad accentuarlo, a rendere più acuto lo scontro fra giovani e anziani. Da ormai quindici anni la posizione relativa dei giovani nella distribuzione dei redditi in Italia sta peggiorando. La povertà tra chi è senza lavoro parla sempre più giovane ed è nelle classi di età più basse che è concentrato il fenomeno dei working poor. Hanno oggi una volatilità dei loro redditi fino a 5 o 6 volte superiore a quella delle generazioni che li hanno preceduti quando avevano la loro età. Non pochi dei giovani lavoratori di oggi potranno, dopo aver lavorato 40 anni, ricevere pensioni di poco più di 400 euro al mese, al di sotto della linea della povertà assoluta. Il nostro sistema è notoriamente squilibrato a favore di chi oggi riceve una pensione (due terzi della spesa sociale sono destinati a questa funzione), magari a 57 anni e con l’aspettativa di vivere per altri 25-30 anni. In questa legislatura gli interventi su fisco e trasferimenti sociali hanno ulteriormente migliorato la situazione delle famiglie con un anziano come capofamiglia rispetto alle famiglie con figli minori. E l’unica proposta di politica sociale sin qui emersa in una campagna elettorale fatta per lo più di insulti, è la scelta di aumentare le pensioni minime. Ci si insegue nel cercare di conquistare il partito dei pensionati. Mentre la povertà fra i giovani non è certo una priorità.
Perché la politica ignora i giovani? Ed è possibile risolvere il conflitto intergenerazionale anziché doversi schierare dalla parte dei giovani o da quella degli anziani? Cominciamo dalla prima domanda. Finché ci sarà un conflitto fra generazioni, saranno gli anziani ad avere la meglio. Oltre ad essere maggiormente rappresentati dove conta esserlo, sono sempre più numerosi tra gli elettori. L’elettore mediano aveva nel 1992 (quando fu varata l’unica riforma delle pensioni che ha ridotto le prestazioni degli attuali pensionati) 44 anni, alle scorse elezioni politiche aveva 46 anni, oggi ha 47 anni e nella legislativa successiva raggiungerà i 50 anni. In un sistema bipolare, i partiti cercano, per vincere le elezioni, di catturare il voto di questo elettore mediano. Dunque è comprensibile che, se conflitto ha da essere, la bilancia penda sempre di più dalla parte degli anziani. Passiamo al secondo quesito: è inevitabile il conflitto? In realtà l’elettore mediano ha molto da perdere dal peggioramento della condizione relativa di chi è più giovane. Saranno proprio gli attuali under 40 a pagare le pensioni dell’attuale elettore mediano. Dal successo dei più giovani nell’accumulare capitale umano e nel valorizzarlo dipende in buona misura la ricchezza futura dell’elettore mediano, anche perché chi ha livelli di istruzione più elevati riesce a lavorare più a lungo, può creare posti di lavoro e stimolare, attraverso la trasmissione ad altri delle proprie conoscenze, la crescita dell’intera economia. Soprattutto le abilità non cognitive (capacità di comunicazione, autostima, adattabilità) così essenziali nel successo professionale si formano nei primi anni di vita. Dunque l’elettore mediano è fin da subito interessato ad investire nel benessere e nella crescita culturale dei più giovani. Ma non se ne rende conto perché, nel suo lavoro, vede solo il lato negativo del rapido inserimento nel mondo del lavoro dei più giovani, quello della svalutazione del proprio capitale umano. Ci sono allora tanti modi per fare realizzare all’elettore mediano i vantaggi di una bilancia delle opportunità che si sposta maggiormente a favore dei giovani, «internalizzando» i vantaggi che da questa derivano. Facciamo un esempio su di un terreno centrale, oltre alle pensioni, in cui oggi si consuma il conflitto intergenerazionale: la qualità dell’istruzione e della ricerca. Un quarto dei nostri docenti ha più di 60 anni, la percentuale più alta in Europa. Il pensionamento degli ultrasessantenni ci offre, in linea di principio, l’opportunità di rinnovare il nostro corpo docente, portandolo alla frontiera della ricerca. Siamo da questa molto lontani, dato che la valutazione della ricerca universitaria, appena conclusasi (vedi www.civr.it), ha mostrato che in molte discipline solo il 10-20% dei migliori prodotti di ricerca selezionati dalle università ha caratteristiche di eccellenza secondo una scala di valore condivisa dalla comunità scientifica internazionale. Il problema è che oggi sono spesso i docenti più anziani a decidere sull’ingresso delle nuove leve e molte volte preferiscono far passare chi è meno in grado di svalutare il proprio capitale umano ed è stato magari da anni al loro servizio. Solo 5 docenti su 100 hanno meno di 35 anni e il nostro sistema universitario ha una percentuale di ricercatori stranieri nel corpo docente vicina allo zero. Se la valutazione della ricerca venisse ora utilizzata per decidere come distribuire i finanziamenti alle università, anche i docenti più anziani sarebbero interessati a rinnovare il corpo docente chiamando i ricercatori più bravi che si trovano sul mercato, anche lontano dal proprio orticello. Col loro ingresso nel corpo docente, questi ricercatori farebbero infatti salire il livello medio della ricerca nella propria università contribuendo a migliorarne le disponibilità finanziarie. Ma è molto probabile che questo utilissimo esercizio di valutazione rimanga in qualche cassetto telematico e che le università continuino a ricevere finanziamenti in base unicamente al numero degli studenti. Con buona pace di quei docenti che pensano ormai solo alla pensione e di quegli studenti che cercano una università più facile.
(Fonte: Tito Boeri, La Stampa, 8 febbraio 2006)
E’ davvero significativo che una delle più autorevoli “intelligenze economiche” del panorama italiano abbia una posizione così vicina alla nostra, al nostro concetto di ricambio generazionale, alle nostre PRIORITA’.
Tanto per rinfrescarci la memoria, il Prof. Tito Boeri, docente universitario e studioso internazionale, è colui il quale appare come un diavolo al Signor Giulio Tremonti: che infatti rifiuta ormai da tempo immemore qualsivoglia confronto a due.
Sarà forse perchè il Prof. Boeri è abituato a parlare a tutti noi di di macro e micro economia.
Facendo comprendere le cose come stanno.
Paolo Briziobello