Guadagnano meno dei loro padri alla loro età, e hanno una prospettiva di carriera molto più grigia. Sono i giovani che si muovono oggi sul mercato del lavoro: stagisti, lavoratori a progetto, segretarie interinali, ricercatori e docenti universitari, single o mammoni. Scuole finite regolarmente, magari anche una laurea, addirittura una specializzazione. Sono passati attraverso una serie più o meno lunga di lavoretti precari. Fino all’assunzione: molto spesso con uno dei tanti contratti flessibili a disposizione dei datori di lavoro per far entrare in fabbrica o in ufficio, ma non solo. Anche chi ha il mitico posto fisso, è accomunato dalla stessa condizione: per tutti il 27, la busta paga, racconta lo stesso tenore di vita. Sotto i mille euro al mese, spesso meno, tra gli 800 e i 900.
Su di loro è nato da poco un sito, www.generazione1000euro.com, dove si può scaricare il libro on line che li descrive. “È la storia di Claudio, un giovane emiliano che vive a Milano come junior account nel marketing di una multinazionale con contratto co.co.pro. a 1.028 euro netti al mese senza tredicesima. Eppure è fortunato, non disdegna la sua vita, ha un lavoro che gli piace e ha ancora i sogni intatti”, spiega l’autore, Antonio Incorvaia.
Ma quanti di questa generazione ‘low cost’ condivide una visione così positiva? I ‘milleuristi’ protestano ma non scioperano perché non c’è sindacato che si occupi di loro: “Diamo ai collaboratori a progetto un contratto di lavoro nazionale”, invoca infatti Agostino Megale, direttore dell’Ires-Cgil. I milleuristi hanno un basso potere d’acquisto, e mobilità sociale pari a zero. “Non ci sono correnti ascensionali”, fotografa il direttore del Censis Giuseppe Roma: “Se dieci anni fa guadagnavi due milioni non ti lamentavi troppo. Oggi a farti sentire mal pagato si aggiunge la mancanza di prospettiva di carriera”. “Sono ‘working poors”, li descrive l’economista Tito Boeri. I giovani milleuristi sono, insomma, i candidati ideali a far parte di quella classe ‘proletarizzata’, descritta in un libro appena uscito, ‘La fine del ceto medio’, di Massimo Gaggi e Edoardo Narduzzi: “Dagli operai ai pensionati senza redditi integrativi fino agli insegnanti e ai dipendenti pubblici con famiglia a carico al minimo dello stipendio, che consumerà beni di prima necessità, sostituirà il trasporto pubblico all’auto e vivrà di servizi sociali essenziali, sempre più schiacciata verso modelli sociali da Terzo mondo”.
Da chi è composta esattamente questa ‘generazione mille euro’? Quello che appariva come un fenomeno socioeconomico marginale, ora sta acquistando un contorno. I milleuristi vengono contati. Messi sotto il microscopio, come ha appena fatto il demografo Antonio Golini, per vedere, per esempio, quanto sono soddisfatti. Si delinea il loro perimetro. Si riflette su cosa sarà di loro al momento della pensione, come ha chiarito la Fondazione De Benedetti in un recente convegno. Ci si interroga sulle loro tutele, come ha fatto la Cgil in un fresco studio dell’Ires. E poiché questo è un gruppo di origine interclassista – e ciò impedisce che diventi la nostra banlieue – può comunque esprimere disagio sociale, disillusione professionale, disaffezione alla politica. Anche per questo sindacato, politica, mondo dell’impresa, cominciano a riconoscerlo come un ‘blocco’ con cui avere a che fare.
‘L’espresso’ ha cercato, per la prima volta, di disegnarne l’identikit sul territorio nazionale, e non solo attraverso un campione: in Italia ci sono in totale due milioni di lavoratori dipendenti tra i 15 e i 40 anni che guadagnano meno di 900 euro al mese, a cui si aggiunge un altro mezzo milione di lavoratori autonomi. Una cifra consistente, a cui si arriva elaborando i dati dell’ultima Indagine sui redditi delle famiglie della Banca d’Italia (presentata lo scorso gennaio), e che illumina già una prima disparità, quella tra dipendenti e autonomi: i milleuristi sono in netta maggioranza sotto padrone. “Con un potere monopolistico del datore di lavoro, e uno molto basso di trattativa”, commenta Tito Boeri.
Poiché la fascia di età è molto ampia, può venire il sospetto che siano tutti giovani al primo impiego. Ma non è così. Se si suddividono per condizione familiare, la realtà è più bruciante. Dei due milioni e 60 mila lavoratori dipendenti che al 27 prendono meno di 900 euro al mese, 945 mila sono capifamiglia, un milione e 115 mila vivono ancora in famiglia. La metà quindi si deve barcamenare con un proprio bilancio (e verosimilmente è oltre i 30 anni), l’altra metà sta ancora da papà e mammà. Per il mezzo milione di autonomi, la proporzione è un po’ diversa: 319 mila sono capifamiglia, 207 mila sono ancora nella famiglia d’origine.
Quanto alla loro distribuzione nel paese, i dati indicano che i nostri ‘milleuristi’ o giù di lì si annidano sia Nord sia a Sud: tra i dipendenti, il 44 per cento sta nel Settentrione, il 18 al Centro, il 38 nel Mezzogiorno. Tra gli autonomi, prevale il Sud con il 40 per cento, mentre al Nord la presenza scende al 35, e al 25 al Centro. Per sapere qualcosa di più di loro, ci aiutano altri punti di osservazione. “Tra chi ha meno di mille euro al mese ci sono molti laureati”, dice Megale: “Anzi: chi ha la licenza elementare o media inferiore ha mediamente una retribuzione più elevata”. “Il fatto è che quei mille euro li fai lavorando nel terziario di livello basso, dove sono cresciuti di più i posti di lavoro: nei servizi organizzativi, nelle agenzie immobiliari”, aggiunge Roma. Ma dove la laurea non serve. Lo conferma una indagine Unioncamere-Ministero del lavoro: apparentemente dal 2003 al 2005 la domanda di laureati da parte delle imprese aumenta in percentuale dal 6,5 all’8,8. Ma in valori assoluti si dimezza: dai 16 mila del 2003 si precipita agli ottomila del 2005. I posti per i laureati non solo sono pochi, “ma spesso i giovani si ritrovano sul mercato del lavoro con un pezzo di carta poco spendibile”, aggiunge il direttore del Censis, che confessa: “Noi prendiamo solo neolaureati, ma non è facile trovarne qualcuno da assumere a tempo indeterminato”.
La conferma viene da Alessandro Brignone, presidente dell’Ailt, che raggruppa 19 fra le 90 agenzie per il lavoro attive in Italia: “Spesso abbiamo giovani con titolo di studio elevato, ma che non incontrano le richieste del mercato. Che vuole personale per mansioni altamente specializzate come elettricisti, fresatori, tornitori, contabili… Come si risolve? Per quanto ci riguarda, le agenzie investono soldi in formazione, per tentare di colmare il gap tra domanda e offerta di lavoro: 90 milioni di euro nel 2005, per 200 mila persone, con un tasso di occupazione del 50 per cento”. E comunque è sempre lavoro in affitto: solo uno su tre inviato in missione ‘temporanea’ in una azienda, poi ci rimane con il posto fisso. Quanto alla variegata famiglia dei cococo, la ‘segregazione’ è ancora più alta: secondo i dati Inps, il passaggio da questa categoria a quella di lavoratore dipendente a tutti gli effetti è di uno su dieci all’anno.
Ma come si spiega che a un certo punto nel paese c’è stato un blocco degli stipendi di ingresso nel mondo del lavoro? E che questi stipendi si sono di fatto pietrificati a un livello così basso? Il fenomeno non è sfuggito a un osservatore di prima linea della realtà italiana come Giancarlo Morcando, direttore centrale del servizio studi della Banca d’Italia. Nel suo ultimo libro, ‘Una politica economica per la crescita’, lo descrive così: “La crescita dei salari è stata contenuta dalla diffusione dei rapporti a tempo determinato e dal ricambio generazionale della manodopera, seguito alla pesante distruzione dei posti di lavoro nella recessione del 1992-93; a fronte di un cospicuo e costante flusso in entrata di occupati di qualità crescente, il differenziale retributivo tra anziani e giovani si è costantemente ampliato”. “I salari dei giovani sono stati abbassati per contenere la dinamica salariale”, spiega Morcaldo, “e perché non si potevano toccare quelli dei vecchi”. Anche in Banca d’Italia, tanto per dire, è successo così per i nuovi assunti, i cui livelli di stipendio, una volta mitici e comunque sempre ottimi, si sono però abbassati. Risultato: la quota dei lavoratori dipendenti a bassa retribuzione in Italia è passata dal 10 per cento del 1991 al 18 nel 2002. In gran parte proprio i giovani.
E quel che è peggio, tra di loro cresce la percezione di essere maltrattati dal mondo del lavoro. Lo dimostra l’indagine svolta dal Dipartimento di scienze demografiche dell’Università di Roma La Sapienza diretto da Antonio Golini insieme con l’Isfol. Sarà presentata il 15 febbraio, ma qualche risultato si può anticipare. Dei 2.500 giovani tra i 20 e i 34 anni intervistati lo scorso settembre, il 57 per cento dichiara di avere un’attività retribuita, e in maggioranza da lavoro dipendente (il 58 per cento). Quanto alla retribuzione, quattro su dieci di loro guadagnano meno di 750 euro netti al mese. Altri quattro percepiscono tra i 750 e i 1.250 euro netti al mese; gli altri due stanno sopra. Ma la maggioranza si sente sottopagata, e vive quindi la frustrazione di uno stipendio che non riconosce il valore della formazione ricevuta. Il 38 per cento degli intervistati vorrebbe guadagnare tra i 1.250 e i 2.000 euro, mentre ad arrivare a questa cifra a fine mese è solo il 16 per cento. Quanto poi alla voglia di crescere, i giovani si sentono condannati a rinviare le grandi scelte della vita, la casa, la famiglia, perché toccano con mano che con lo stipendio che prendono proprio non ce la fanno: solo due intervistati su dieci ritengono che una busta-paga sotto i 1.250 euro basti per vivere autonomamente. Anche sfondare la soglia dei mille euro, non sembra soddisfacente.
Se si sta sotto, e come abbiamo visto riguarda la maggioranza, guardare all’orizzonte della pensione può essere un incubo. Boeri, con la Fondazione De Benedetti, ha calcolato che un lavoratore a progetto che guadagna oggi 800 euro al mese, dopo 40 anni di contributi (oggi al 20 per cento) avrà una pensione annuale inferiore a 5.000 euro all’anno. “Bisogna aumentare i contributi e introdurre in Italia un salario minimo”, propone Boeri (vedi box qui sopra). Quale? “Per esempio, cinque euro all’ora, 826 euro al mese, il salario medio del Canada”. Siamo sempre ai nostri milleuristi. Dei quali anche il ministero del Welfare comincia a preoccuparsi. Perché molti di loro sono figli dei contratti flessibili introdotti dagli anni Novanta, e che oggi si sono moltiplicati fino a configurare quaranta diverse figure professionali. Una giungla. “È vero che la flessibilità ha fatto crescere l’occupazione”, ammette Morcaldo, ma ha anche creato delle distorsioni: ha trasformato l’occupazione buona in precaria. Un po’ di precarietà va anche bene, ma se l’economia non cresce è condannata a restare tale. E la stabilità dell’assetto sociale non si garantisce se non c’è più occupazione, ma anche crescita dei salari reali”.
“Dobbiamo fare in modo che la flessibilità non sia uno svantaggio”, riflette Lea Battistoni, direttore generale del mercato del lavoro al Ministero del Welfare: “E che la mobilità sia ascendente”. Il che vuol dire formazione e assistenza nell’intervallo tra un lavoro e un altro. Il progetto ‘lavoro e sviluppo’, avviato per le prime 1.300 persone, dà 530 euro al mese a ciascuno, casa, trasporti, un tutor. Funzionerà? Magra consolazione, è che la fascia dei giovani con stessi problemi è diffusa in tutta Europa, e tutti cercano ricette. Aspettando, forse, che la demografia faccia il suo corso: tra il Duemila e il 2020 la popolazione italiana tra i 20 e i 40 anni diminuisce al ritmo di 300 mila unità all’anno: forse, con meno persone che cercano lavoro, il problema dei milleuristi si estinguerà da solo.
(Fonte: l’Espresso di questa settimana)