A chi lo incalza sul punto, Prodi risponde lapidario: “I diritti ci sono”. In effetti alla pagina 72 il programma del centrosinistra promette il riconoscimento giuridico dei diritti delle persone che fanno parte di coppie di fatto. Sette righe: una questione secondaria, appunto. Davvero l’Unione pensa di cavarsela con poche battute e una tregua elettorale? La domanda non riguarda solo le prospettive politiche della coalizione: il rapporto fra laici e cattolici, fra centro e sinistra, fra Prodi e Pannella. Riguarda “il bene dell’Italia”, per usare il titolo del programma. Nel suo piccolo, la questione dei Pacs mette a nudo alcuni nodi irrisolti del modello sociale italiano e dunque ha a che fare con le prospettive di modernizzazione dell’intero Paese. Impostare la questione dei Pacs in termini di diritti civili e laicità dello Stato è importante, ma limitativo. La cornice entro cui collocare il dibattito dovrebbe essere quella, più ampia, della “famiglia” (intesa in senso lato) e delle forme di convivenza scelte o subite oggi dagli italiani, in particolare dai giovani. Negli ultimi due decenni il nostro ha imboccato una strada anomala rispetto agli altri Paesi e rischia di impantanarsi in una sindrome di “familismo bloccato”: la famiglia tradizionale resta il fulcro dell’organizzazione sociale ma al tempo stesso ne ostacola il dinamismo e l’adattamento, soprattutto rispetto alle trasformazioni del mondo del lavoro. I dati sono noti. Due terzi dei giovani italiani sotto i 35 anni vive ancora a casa dei genitori (erano meno del 50% nel 1993), di contro al 20% dei tedeschi o al 10% degli scandinavi. Le ragioni sono molteplici: la difficoltà a trovare una casa, l’assenza di borse di studio, di sussidi per chi cerca o perde il lavoro. Nel nostro Paese la famiglia di origine è ancora il primo e più importante “ammortizzatore sociale” per i bisogni dei figli adulti. Qualcuno potrebbe dire: che male c’è? Il male sta nel fatto che la famiglia “blocca”: i figli frequentano l’università sotto casa, anche se scadente, cercano lavoro nella città dove risiedono, anche se di lavoro ce n’è poco o non è quello desiderato. E soprattutto i figli restano figli: non acquistano autonomia, non sperimentano, non formano nuove unità di convivenza, si riproducono tardi e poco. Com’è risaputo (ma lo è abbastanza?) l’Italia ha un tasso di natalità fra i più bassi del mondo. Ma veniamo ai Pacs. Negli altri Paesi europei le unioni di fatto si sono progressivamente affermate come modalità prevalente di convivenza fra i giovani. Solo il 30% circa delle prime unioni si forma a seguito di un matrimonio: tutte le altre sono unioni di fatto. I giovani escono di casa, si mettono alla prova, sperimentano diverse combinazioni di relazioni lavorative, formative e affettive. Dove esistono i Pacs molte di queste unioni si stabilizzano e regolarizzano. Gran parte di quelle eterosessuali si trasformano poi in matrimoni, in genere dopo la nascita di un figlio. Fra le coppie con figli, il matrimonio resta la norma anche nei Paesi nordici. Ciò che cambia drasticamente è il percorso di transizione alla vita adulta: un percorso che inizia prima, che è più flessibile, che consente opzioni reversibili. I Pacs sono solo uno dei tasselli di questo nuovo quadro: ma sono un tassello importante, anche sotto il profilo simbolico. Lo ha capito bene Zapatero, che si è proposto di far uscire la Spagna dalle trappole del familismo tradizionale e iperprotettivo. Nel capitolo sulla nuova rete dei diritti di cittadinanza, il programma dell’Unione elenca fra i propri obiettivi quello di aiutare i giovani “a rendersi autonomi dalla famiglia” e a costituirne una famiglia. La discussione dei Pacs andrebbe esplicitamente collegata a questo tema. Le tensioni ideologiche e politiche non diminuirebbero. Ma almeno si affronterebbe un nodo davvero critico per il modello sociale italiano, del quale non si parla abbastanza.
(Fonte: Corriere della Sera, 1 marzo 2006)