La cosa bellissima degli articoli di Concita De Gregorio è che dopo che hai letto i suoi racconti di sedute parlamentari, raduni di massa, manifestazioni e cortei ti sembra di esserci stato anche se non c’eri. Così, mentre stamattina bevevo col caffè anche il suo reportage sulla manifestazione di ieri contro il precariato mi sono venute in mene un sacco di cose e mi sono anche un po’ indignato. Lo dico subito: il precariato è una grandissima vergogna ed è uno dei mille – e indubbiamente il più grave – modo in cui si manifesta il disagio delle giovani generazioni in questo paese. “Avere voce significa avere potere. I sindacati che difendono i lavoratori dipendenti hanno una voce enorme. Hanno un potere enorme. Hanno il potere di imporre in finanziaria stanziamenti per l’assunzione di migliaia di nuovi insegnanti in un paese che non fa più figli. Hanno il potere di imporre una rappresentazione della società e dei suoi bisogni che non sta più né in cielo né in terra: una società fatta di padroni e lavoratori, in cui i primi sono tutti coloro che non sono dipendenti a tempo indeterminato. Hanno il potere di far passare come “equi” provvedimenti che tutelano burocrati, fannulloni e pensionati – base sociale e contributiva dei sindacati. E che al contrario spacciano la generazione di avanguardisti del capitalismo personale – quei giovani atipici, appunto – come classe padronale, soffocandone le prospettive di affermazione perché nella loro affermazione quel vetero-sindacalismo riconosce il pericolo più forte alla sua stessa sopravvivenza” scrive Simona Bonfante in uno straordinario post non sul Foglio o sul Giornale ma sul blog del Campo dell’Unione (uno dei più brillanti, innovativi ed autonomi gruppi che da Venezia spingono per la nascita del Partito Democratico) che riassume benissimo quello che penso anche io.
Ieri sfilavano in quel corteo – contraddicendo gravemente se stessi due volte, per le loro cariche istituzionali e per la responsabilità legate alle loro scelte politiche – non soltanto parlamentari e governanti in carica ma anche persone che difendendo in ogni modo l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori hanno di fatto creato il precariato che ieri contestavano. L’articolo 18 è la norma di legge che sancisce l’inamovibilità del lavoratore dipendente e che di fatto ingessa in modo praticamente unico in Europa il nostro mercato del lavoro. E l’articolo 18 è una garanzia che in questo paese è riconosciuta in via praticamente esclusiva ai cosiddetti “baby boomers”, i nati dal 1946 al 1964, i prossimi ad andare in pensione: di fatto il quadro economico e la necessità per le nostre imprese di competere a livello mondiale impediscono ai datori di lavoro di offrire contratti a tempo indeterminato come disegnati dalle leggi vigenti e dalla giurisprudenza: lo hanno riconosciuto governi di destra e di sinistra che senza distinzioni hanno introdotto forme di flessibilità sempre più spinte e a tratti disumane. Cosicché oggi ci troviamo davanti ad un mondo del lavoro fatto di vecchi blindati e di giovani precari. E mentre i vecchi hanno la garanzia del sindacato alle spalle, con la sua straordinaria forza politica, i giovani non hanno nulla e nessuno che li tuteli. Mi piacerebbe chiedere ai sottosegretari e ai parlamentari presenti al corteo di ieri se non avrebbe più senso avere un mondo del lavoro dove nessuno è garantito a vita ma dove tutti, tutti, possono avere un contratto di lavoro a tempo indeterminato. Indeterminato non permanente. Indeterminato significa stabile ma soggetto ad essere terminato in particolari circostanze. Se i nostri datori di lavoro potessero licenziare quando ne hanno bisogno, e pagare sanzioni anche salatissime quando sbagliano, e non essere invece praticamente certi del reintegro in azienda sempre, quando hanno torto e anche quando non ce l’hanno; e se il sistema non buttasse quindi come fa addosso alle imprese il problema dell’assistenza sociale e il governo mettesse in atto sistemi per proteggere efficacemente coloro che si trovano in una situazione di debolezza (disoccupazione inclusa), non sarebbe molto meglio? Non sarebbe meglio per i giovani avere contratti che dessero loro tranquillità (anche se non assolute certezze, come accade oggi)? Non sarebbe meglio anche per le imprese poter aver a che fare con una forza lavoro non così fluttuante e instabile come quella che gestiscono oggi? Col lavoro che faccio mi chiedo come si faccia per esempio a pianificare la formazione di tutti questi lavoratori trimestrali, e immagino che semplicemente non lo si faccia. E mi chiedo come se ne stimoli la motivazione e il senso di appartenenza all’azienda (fattori cruciali per il successo di un business) e anche lì immagino che non lo si faccia. Ma fare un passo del genere richiederebbe ai baby boomers di mollare le loro certezze, e i baby boomers non lo fanno, e i sindacati e i sottosegretari e i parlamentari che sfilavano ieri sono proprio i garanti di questa situazione. Esistono casi eclatanti di paesi in cui la flessibilità, anche estrema, non è diventata barbarie come da noi. Questo avrebbero dovuto chiedere i precari ai nostri onorevoli parlamentari e sottosegretari: Onorevole Sentinelli, Onorevole Cento, Onorevole Giordano: com’è che mio padre ragioniere ha da 30 anni un contratto permanente in banca e invece io che sono laureato in fisica della materia sono al quarto co.co.co? Onorevole Gianni, Onorevole Russo Spena, Onorevole Folena, com’è che mia zia Antonietta è andata in pensione quando aveva 45 anni dal ministero delle poste e io che adesso ne ho 40 non ho ancora mai avuto lo straccio di un contratto? Come fanno papà e la zia Antonietta a godere di tutto questo? Se è vero che il mondo è cambiato, come mai loro hanno ancora tutti i diritti e a me sono rimasti i sacrifici, insomma? Chi li difende? E perché non difende anche me?
Nel frattempo i sindacati hanno portato a casa tre miliardi e mezzo di euro per l’enorme e intoccabile baracca della nostra macchina statale, ma, attenzione al dettaglio, non hanno ancora revocato lo sciopero.
13 risposte a “La sinistra a lunga conservazione”
Sono d’accordo con te Ivan e con il bel brano della Bonfanti che hai ripreso. Sulla qustione dell’art. 18 e della battaglia che ci fu all’epoca per estenderlo vorrei aggiungere una nota personale (ma non troppo): da quella sconfitta referendaria – perchè di sconfitta si trattò – io, che avevo partecipato con altri amici alla campagna, avviai una riflessione che mi condotto alla fine alla conclusione che la sinistra cosiddetta radicale non ha alcuna ricetta credibile per arrivare a quella “piena e buona occupazione” che pure sarebbe nel suo DNA. E so di non esser stato il solo dei “delusi” da art. 18 come antidoto ai mali dell’occupazione italiana (che vanno affrontati in tutt’altro modo), e invece quei “delusi” sono un settore della sinistra interessante e da riprendere. Purtroppo invece la sinistra sindacal radical è lì viva e vegeta e forte, avendo saputo rigirare la frittata per affermarte di come fosse stato un successo quel 30% circa di affluenza. E continua a perseguire quelle stesse strategie. I “delusi” non gli hanno creduto. L’unico appunto di riflessione che ti rivolgo è a proposito dei 55enni e oltre, che quando escono dal mercato del lavoro, allo stato attuale hanno ben poche speranze di rientrarvi e serie di cadere in un baratro sociale senza ritorno: anche da militanti di Generazione U dobbiamo riflettere su questo… un saluto!
mi piacerebbe sapere, visto che siamo tutti d’accordo con quello che dici, come mai nessuno del corteo ha contestato i vari sottosegretario presenti al corteo stesso. Era palese che dietro questa gente si nascondessero interessi corporativi affinche’ “tutto cambi ma tutto resti sempre uguale”. Chi era la’ in corteo, perche’ non ha contestato questi sedicenti profittatori? perche’, come per la Moratti a suo tempo, ognuno ha diritto a scendere in piazza (=strumentalizzare per i propri fini?) con il corteo a suo piacimento?
esatto filippo, ci strumentalizzano per i propri fini. e non glielo lasciamo fare. Ma avete mai visto una manifestazione in piazza, di quelli organizzate alla grande intendo, senza che sia stata guidata da partiti, movimenti politici o sindacati? Perchè non ci si organizza da liberi cittadini per presentare una ‘nostra finanziaria’, dove decidiamo anche noi i tagli da fare dentro il Parlamento?
Il problema della rappresentanza dei precari è forse più decisivo rispetto alle richieste dei sindacati per i lavoratori a tempo indeterminato. I sindacati in fin dei conti fanno il loro mestiere, tutelare i propri iscritti. Non è colpa loro se io, precario, non ho rappresentanti da mandare a contrattare col governo.
Diverso il discorso sui politici. Esprimo solo una certezza, e cioè che se talune sensibilità non sono presenti neanche in queste forze politiche al governo è giunta l’ora di rinnovarle.
caro ivan, cari amici,
sono simona bonfante, autrice del post citato…
sono lieta si condivida qui la mia indignazione. lieta si condivida l’urgenza di porre politicamente la questione della valorizzazione di quel gruppo sociale che, avendo accolto i rischi del mettersi in gioco – avendo quindi accettato anche il rischio di perdere – pretende che il merito, se c’è, venga riconosciuto, non mortificato.
sono nuove regole quelle per cui è necessario battersi, non nuovi diritti né privilegi nè forme di irresponsabile garantismo. sono le regole – è ovvio – che consentono di liberare il talento. sono le regole che, motivando ed incoraggiando la competizione, consentono l’affermazione del valore.
non possiamo quindi tollerare l’ipocrisia con cui quegli stessi che a frascati parlano di rischio e merito, al governo accolgono invece una finanziaria culturalmente ancorata alla tradizione fordista dell’articolazione sociale, con ciò facendosi complici di un meccanismo perverso che consolida vecchie iniquità – quelle che i sindacati e la sinistra continuano ad alimentare – e annichilisce ogni prospettiva di rigenerazione – sociale, certo, ma anche economica e culturale.
non è, la mia – la nostra? – una battaglia generazionale. non è una battaglia contro la politica o contro i sindacati. è una battaglia perché i fini storici del sindacato e della cultura politica di sinistra – i principi dell’equità e della giustizia sociale – si attualizzino, trovino cioè affermazione con gli strumenti e il linguaggio che questa epoca impongono.
cruciale al riguardo è il ruolo della scuola. perché la scuola forma il cives. una politica per la scuola non può – santoddio – essere pensata avendo in mente la lobby sindacalizzata del corpo docenti. deve essere pensata avendo in mente la società che si vuole formare.
se vogliamo una società che premi il merito, allora vogliamo una scuola che educhi alla competizione verso l’alto. vogliamo una scuola – ed una società – che riconosca nelle differenze non un principio di destra ma un principio giusto e basta. perché una scuola – ed una società – che annichilisce il valore individuale in un indistinto, ministeriale livellamento verso il basso, non può che creare una moltitudine di zombie, irresponsabile, irresponsiva…votata al populismo o all’anarchia.
come si fa ad attribuire alla tv commerciale la responsabilità del torpore della nostra “società civile”. quella responsabilità è prima di tutto del vetero-paternalismo che ancora governa le forze organizzate di rappresentanza sociale. forze, ahimé, così prive di accountability da aver la faccia tosta di scendere a manifestare con i precari, illudendoli di stare dalla loro nella pretesa che la soluzione non siano le regole per una competizione equa ma l’azzeramento della competizione.
c’è così tanto da dire, così tanto da fare…
un caro saluto
sb
Mia cara Simona, più ti leggo e più sono d’accordo con te. Non ci perdiamo di vista: è vero, ci sono un sacco di cose da fare.
Un abbraccio, Ivan
all’articolo di concita de gregorio io preferisco quello di Massimo Giannini del giorno prima della manifestazione…
Mi dispiace ma non sono affatto d’accordo. L’art.18 è una delle poche garanzie per i lavoratori italiani. Cominciare (anzi, ricominciare) a metterlo in questione mi sembra come minimo paradossale in un paese in cui il posto di lavoro dipende sempre piu’ dalle esigenze (le voglie, i capricci, le simpatie) dei padroni (o imprenditori, chiamateli come volete tanto e’ la stessa cosa). Quando riesci a avere il posto fisso resti sempre e comunque in una posizione di debolezza rispetto al datore di lavoro, che se un giorno decide che non gli vai piu’ a genio stai tranquillo che il modo per farti sloggiare lo trova (e non che sia proprio sempre facile dimostrare mobbing e altre allegre trovate). Se si vuole superare il precariato iniziamo a reclamare maggiori ammortizzatori sociali tipo indennità di disoccupazione e formazione continua davvero funzionanti e efficaci e dopo (ma solo dopo rivedere l’art. 18).
Un grande saluto a tutti e grande simpatia a Ivan
Francesco
PS vivo in Francia ho avuto contratti a tempo indeterminato, si possono interrompere (non solo se lo decide il tuo datore di lavoro). La ‘rete di sicurezza’ di indennità di disoccupazione e simili permette di vivere in modo non particolarmente drammatico la precarietà. Resta il fatto che in un’azienda se il padrone ti vuol buttare fuori non ha troppi problemi (l’art 18 non c’e’).
caro Francesco, l’art 18 non fu voluto da Craxi (senza che nessuno glielo avesse chiesto)? io non sono cosi’ sicuro che, a parte gli squadristi, i lavoratori siano tutti favorevoli ad averlo. Preferirei che ce lo chiederessero, prima o poi, invece di soddisfare esigenze dettate da una minoranza di tessere di partito.
Il precariato è un’autentica piaga, su questo non ci sono dubbi.
Lo sfascio sociale in cui porta una generazione intera è sotto gli occhi di tutti.
Però qualcuno mi deve spiegare perchè quando mi imbatto (spesso) in insegnanti dei miei figli totalmente incapaci di fare il loro mestiere l’unica risposta possibile sembra sia quella di cambiare scuola, come se questo risolvesse il problema; altra scuola, altri insegnanti; se va bene, uno bravo, qualcuno passabile e parecchi incapaci.
E allora bisogna intendersi bene, cari amici, perchè occorre stabilire se è nato prima l’uovo o la gallina. Fino a quando non ci sarà la possibilità di cacciare dal proprio posto (sì, ho detto cacciare, e pure con ignominia) chi non fa quello per cui è assunto o lo fa producendo guasti indicibili, è inutile lamentarsi delle risposte che arrivano dal “mercato”. Siamo nel campo della legittima difesa.
Il mondo va troppo in fretta per potersi permettere di aspettare che anche i sindacati e buona parte della sinistra italiana arrivino a capire i loro catastrofici errori. Se tutto va bene, arrivano sempre con almeno una generazione di ritardo e intanto, per dirla con parole di Giorgio Gaber, “frrrr… la realtà è più avanti!”
E noi tra una generazione non staremo qui a parlare di Italia, ma di una sub-colonia di qualche potentato asiatico e i nostri figli rimpiangeranno le condizioni di vita e di lavoro di un odierno co.co.co.
Che ci piaccia o no.
A meno che non ci si dia una mossa, ma una mossa di quelle che, al confronto, il crollo dei partiti tradizionali dopo tangentopoli è stato un antipasto.
E invece stiamo qui, a fare i conti con il senatore Di Gregorio, il senatore Pallaro e con la sinistra “di lotta e di governo” ….. che pena!
il punto non è l’art.18, e neppure il precariato o il cocodeismo oramai incontenibile e devastante sul morale collettivo, ma il fatto che serve, drammaticamente e velocemente serve, una NOSTRA presenza nelle istituzioni perché oggi chi parla non rappresenta più un pezzo di paese che è diventato economicamente rilevante e pesante.
Che piaccia o meno dalla nostra generazione sta uscendo la classe dirigente di oggi e domani e non (per grazia ricevuta vedendo come operano) dal lavoro dipendente o dal blocco degli imprenditori.
Vendiamo idee e servizi, ovvero l’unica cosa che ha un vero domani e non esistiamo sul tavolo.
qui in questo spazio c’è il nostro futuro politico e quello economico dell’Italia.
Lo spazio però lo si conquista e non lo si aspetta, quindi è ora di darsi da fare il triplo e se non basta di più.
Sono una dei tanti baby boomers, la generazione precedente a quella degli attuali trentenni e a leggere tutti questi post( certo dotti e ben circostanziati) rimane il dato umano d una grande amarezza.
Trovo nelle vostre parole un dispezzo sociale sulla mia generazione del tutto ingiustificata. State commettendo un imperdonabile errore di analisi, e le vostre considerazioni (sociali ed economiche) sui motivi del vostro reale disagio professionale mi pare siano del tutto grossolane per non dire colpevolmente emotive.
Un pò come accadde dopo la prima guerra mondiale in seno alla piccola borghesia. Per effetto del conflitto perdette economicamente tutti i suoi vantaggi. Ma non dirottò la propria rabbia (come avrebbe dovuto) verso quegli industriali che dal conflitto si erano enormemente arricchiti alle loro spalle. Al contrario se la prese con gli operai delle industrie, che statavano
lentamente migliorando la loro condizione sociale. Un avvicinamento sociale che la borhesia non tollerava.
Voi state compiendo lo stesso errore, scaricando la vostre giuste rivendicazioni verso le persone sbagliate. Non è prendendovela con chi ha i diritti ed un lavoro tutelato che migliorerete certo le vostra situazione sociale. Al contrario, questo vostro propugnare un allineamento verso nuove, ma minori tutele universali, porterà svantaggi per tutti, come sta già accadendo.
Il mondo del lavoro negli ultimi dieci anni è molto cambiato e la legislazione a tutela dei diritti dei lavoratori di cui voi parlate ha subito molti cambiamenti purtroppo in peggio.
Regge l’articolo 18 è vero, una norma che stabilisce più che una tutela reale, un principio di civiltà. L’avete mai letto? Dice che in grandi aziende, non è possibile licenziare senza giusta causa. Vi sembra un dettato anacronistico? O un dettato sacrosanto,condivisibile?
Dice che se siete gay, ebreo, comunista o metallaro non potete essere licenziato, perchè per questi motivi state sul cazzo al padrone.
A me non sembra per nulla un principio superabile.
Quanto a voi e alla vostra presuntuosa supponenza una cosa ve la voglio dire.
La mia generazione a 20 anni stava sulle strade a rivendicare diritti, a prendere manganellate per un mondo del lavoro con più diritti e tutele professionali.
In questi anni, siamo ancora sulle strade, per difenderci da un’offensiva industriale e politica ma soprattutto culturale che vorrebbe toglierci quanto di sacrosanto ci siamo conquistati. Ma siamo soli.
Voi dove siete? A 20 dove eravate?
A prendere qualche aperitivo a spese dei tanto disprezzati “baby boomers”? Che cosa avete fatto veramente di “politico” per potere pontificare con tale livore, adesso, in questo modo? Potete veramente dire di avere fatto di tutto per il vostro futuro?
O vi siete adagiati in una prolungata adolescenza, per poi trovarvi col culo per terra?
Guardatevi un pò dentro e cercate di indiviaduare meglio quale siano per voi le vere questioni che ostacolano le vostre legittime aspettative di realizzazione. Cercate meglio il nemico, siete sulla strada sbagliata.
Caro Ivan, ho seguito con simpatia la tua avventura alle primarie e mi dispiace non abbia trovato rappresentanza in parlamento la voce di chi ti ha votato, ma anche la condivisione di molte tue idee anche da parte di chi, come me, non ti ha votato (se avessi potuto dare tre voti invece che uno, oltre che Prodi avrei votato te e Di Pietro). Vedo con piacere che intendi ancora occuparti di politica e che mantieni un confronto con l’opinione pubblica con il tuo blog per dibattere e maturare idee su questioni delle quali un politico serio non può mancare di interessarsi. Vorrei dare anch’io il mio modesto contributo sulla questione del precariato giovanile. Sono un baby boomer a pieno titolo secondo la tua definizione: nato tra il 1946 e il 1964 ho un lavoro con contratto a tempo indeterminato in una grande azienda. Questa premessa è necessaria, per rendere esplicito il conflitto di interesse nel quale mi trovo nel proporre le riflessioni che seguono. Sono d’accordo che la precarietà dei giovani sia un dramma ma dubito che l’articolo 18 ne sia la causa principale. Trovo che ciò alimenti un conflitto generazionale su presupposti del tutto sbagliati. Trovo anche di cattivo gusto accostare “burocrati, fannulloni e pensionati”. La zia che andò in pensione a quarantacinque anni come impiegata delle poste ha goduto di un privilegio, ma oggi ha una pensione molto modesta e fa parte dei poveri secondo le classificazioni dell’Istat, magari perché venti anni dopo essere andata in pensione contribuisce a mantenere un figlio precario quarantenne con tutta la sua famiglia. Quanto all’assunzione delle migliaia di insegnanti, opera malefica dei sindacati, ricordiamo che la scuola da sempre è il primo datore di lavoro in Italia per numero di lavoratori precari impiegato. Solo che nessuno lo ricorda perché gli insegnanti non hanno una buona stampa, trovare chi li difenda è impossibile, tutti li considerano dei falliti che non hanno trovato un altro impiego e niente è più facile che ascoltare qualcuno che pontifica sui rimedi per migliorare la scuola senza averci mai messo piede (ho due figli in età scolare che frequentano la scuola pubblica e mia moglie è una insegnante, sempre presso una scuola pubblica, credo perciò di avere qualche titolo per esprimere questo dissenso dal consenso comune espresso da intellettuali da diporto, manager in prestito alla politica e sedicenti economisti che parlano a vanvera di misurare il merito e la produttività nella scuola senza spiegare come farebbero a misurarli).
Torniamo all’articolo 18. L’articolo 18 fa parte di una legge alla quale quale il legislatore ha dato come nome di battesimo “Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento” ed è stato concepito come un deterrente contro comportamenti discriminatori dei datori di lavoro contro chi prestando lavoro in un’impresa si batte per i diritti suoi e dei suoi compagni di lavoro. La legge 20/5/1970 n.300 di cui fa parte è stata concepita dopo durissime battaglie e discriminazioni subite dai genitori dei baby boomers negli anni Cinquanta e Sessanta. Questo tu lo sai, forse però non lo sanno tutti i giovani precari che si trovano oggi in una situazione di debolezza e vulnerabilità estrema, per molti versi analoga a quella sperimentata dai loro nonni. Non bisogna illudere i giovani precari. Nessuno può dimostrare che eliminando l’articolo 18 si avrebbe un contributo significativo alla riduzione del precariato.
Si afferma infatti con qualche imprudenza che se l’articolo 18 fosse abolito il mercato del lavoro sarebbe liberato miracolosamente dalle sue rigidità, l’economia si metterebbe a galoppare e nuovi posti di lavoro sarebbero creati come per incanto. Mi sembra una visione semplicistica. La flessibilità intesa solo come libertà di licenziare significa rischio, come ben sanno i precari di oggi e di sempre. Significa rischio di non poter pagare l’affitto di casa o il mutuo, gli studi ai figli, le rate dell’auto, le bollette, di condurre una vita normale e di trovarsi dalla sera alla mattina in miseria. Il rischio è inerente all’attività economica in un sistema di mercato e dato che non siamo in grado di concepire un sistema economico che funzioni privo di rischio, ciascuno deve accettare una parte di rischio nell’attività che svolge. Tuttavia il rischio ha anche le sue controindicazioni e occorre studiare come si ripartisce tra i soggetti economici e introdurre correttivi quando si concentra in modo eccessivo su attività e soggetti economici determinati. Un grande economista come Arrow si dichiarò preoccupato che il rischio eccessivo non fosse di freno all’attività economica e affermò che era necessario porre dei correttivi. Che il rischio sia spostato su chi è più debole, perché ha una sola risorsa produttrice di reddito (le proprie capacità professionali) per giunta impiegata per intero presso un unico cliente (il proprio datore di lavoro) forse è inefficiente, oltre che immorale. Quando il ciclo economico ristagna la libertà di licenziare permetterebbe alle aziende le imprese di ridurre il costo del lavoro mandando a casa parte del personale e attendere così tempi migliori in condizioni di minor stress finanziario. Si potrebbe però pensare ad una diversa forma di ripartizione del rischio. Per esempio introdurre componenti flessibili del reddito in funzione del risultato aziendale (per esempio le vendite). Il costo del lavoro si ridurrebbe lo stesso quando le condizioni di mercato sono difficili, ma si ripartirebbe su tutti i lavoratori, invece di concentrarsi solo su alcuni di essi. Per inciso, non è una idea originale, ma una proposta di alcuni anni fa di altro economista, Martin Weitzmann (consiglio la lettura del suo “L’economia della partecipazione”).
Mi pare che dal dibattito sui rimedi al precariato emergano proposte che forse possono essere condensate così. Il problema dei precari oggi può essere risolto agendo su tre fronti: eliminare gli incentivi economici per le imprese ad impiegare lavoro precario (un trattamento fiscale favorevole per trattare le persone “usa e getta” è assurdo, oltreché immorale, perché incentiva un comportamento che non valorizza il fattore produttivo lavoro); tutela legislativa del lavoratore (occorre scoraggiare gli abusi con contratti a tempo indeterminato mascherati da contratti a tempo determinato); aumentare le possibilità di lavoro (l’economia deve creare posti di lavoro in modo che il lavoratore diventi una merce rara e preziosa per le aziende, non un soggetto da spremere e da maltrattare senza riguardo). Sui primi due punti l’intervento è relativamente facile, per quanto riguarda il terzo difficile, anzi difficilissimo. Lì si misura la capacità e il merito di qualsiasi governo. Lì casca l’asino.
Il figlio trentenne che scalcia contro il padre ipertutelato che da sempre lavora nella stessa azienda azienda mi pare una scenetta un po’ fasulla, perché entrambi sanno bene che l’unico ammortizzatore sociale di cui il primo può godere è lo stipendio del secondo. Se il primo ha studiato è perché il secondo aveva il maledetto/benedetto lavoro fisso. L’introduzione di ammortizzatori sociali che fungano da assicurazione per chi perde il proprio posto di lavoro è un correttivo al maggior rischio che comporta per il lavoratore una maggiore flessibilità. Tuttavia è solo una parte del problema, perché gli ammortizzatori sociali possono solo costituire un aiuto temporaneo, sostitutivo parziale del reddito venuto a mancare con la perdita del lavoro. Se non ci sono prospettive di trovare un altro impiego gli ammortizzatori sociali non servono a nulla. Le imprese italiane debbono diventare più produttive, così da espandere il proprio mercato e creare più posti di lavoro. Per diventare più produttive devono investire più in nuovi prodotti e migliorare quelli esistenti, facendo meglio dei loro concorrenti. Come fanno le imprese a investire in nuovi prodotti se non investono in ricerca e sviluppo? Perché non lo fanno? Mancanza di incentivi? Sicuramente, ma forse la nostra classe imprenditoriale ha anche bisogno di idee e di ricambio, magari un po’ di concorrenza può farle solo del bene. Del resto non si può volere la flessibilità per gli altri e la tutela delle posizioni di rendita per se stessi (mi pare sintomatico al proposito la paura dei cinesi e la nostalgia della lira emersa qualche tempo fa tra gli imprenditori, sentimenti non proprio modernisti). Da una generazione intelligente e preparata, oltreché bistrattata e sfruttata, ma abituata al rischio e all’incertezza come quella dei giovani di oggi può venire la spinta a rinnovare il mondo imprenditoriale italiano, a patto che sia reso più facile avviare un’impresa e gli adempimenti burocratici siano ridotti all’osso. Questo credo che sia un punto decisivo, ben più dell’abolizione dell’articolo 18.
Un aspetto mai trattato quando si parla di produttività del lavoro è la partecipazione dei lavoratori alla gestione dell’impresa. Questo può avvenire per legge, come in Germania dove i lavoratori fanno parte del consiglio di amministrazione, oppure perché partecipano al capitale di rischio dell’azienda per cui lavorano, come avviene in modo crescente negli USA, in Gran Bretagna e in altri paesi non propriamente socialisti. Studi sull’argomento indicano che le aziende nelle quali l’azionariato dei dipendenti è favorito hanno tratto benefici economici in termini di produttività e di stabilità economica. La concezione che nell’impresa il mondo si divide in due, chi comanda, la dirigenza, e chi obbedisce, gli altri lavoratori, ha un sapore medievale e contraria all’esperienza che i miglioramenti nei processi produttivi e organizzativi, nonché l’innovazione tecnica, hanno luogo se si assecondano esigenze ed iniziative che provengono dal basso e non per imposizione dall’alto di schemi astratti (la lettura del libro “Comprendre le changement technique” di Christian DeBresson è molto convincente al riguardo). Sono state proposte e attuate tante cose per far emergere il know-how dei lavoratori, con opportune incentivazioni. Credo però che nessun incentivo possa essere così potente come quello di dire “L’azienda è anche mia e posso votare i miei rappresentanti nel consiglio di amministrazione”. Idee per favorire l’azionariato dei dipendenti hanno fatto una fugace apparizione all’inizio dell’attività del precedente governo di centro-destra su iniziativa del ministro Maroni, ma sono rapidamente scomparse sotto la linea dell’orizzonte. Nelle passate legislature sono state depositate proposte di legge a questo proposito da esponenti di entrambi gli schieramenti politici e del mondo sindacale, ma chissà perché non si arriva mai alla discussione in aula e all’approvazione di un testo di legge. Piace di più fare finta di scannarsi su proposte semplicistiche come l’abolizione dell’articolo 18, che dibattere educatamente proposte serie che richiedono attenzione e riflessione (oltre alla TV trash abbiamo anche il problema della politica trash).
Per concludere, trovo anch’io contraddittori e un po’ ridicoli i politici “di lotta e di governo” che vanno alla manifestazione dei precari come se a loro non spettasse di trovare soluzioni e metterle in pratica, in quanto membri del governo e parte della maggioranza parlamentare che lo sostiene. Trovo però anche sbagliato contestare in modo così sgarbato il ministro Damiano, solo perché fa il ministro e quindi si prende la responsabilità di proporre soluzione e agire, invece di dedicarsi a montare con il frullatore gli umori di una piazza che, peraltro, ha buone ragioni di essere scontenta. Si fa fatica a trovare i sostenitori di un dialogo civile e costruttivo. Meno male che c’è Ivan Scalfarotto a questo riguardo. Mi auguro, per il bene del nostro paese, che il tuo esempio faccia scuola. Grazie per l’attenzione e molti auguri.