Per una volta non sono parole nostre, bensì è il titolo dell’articolo che Il Messaggero di oggi pubblica a firma del Governatore della Banca d’Italia Mario Draghi: sarà “solo” perchè non ha i canonici settantanni?
” Nel secolo scorso la scuola e l’università italiane hanno sostenuto la crescita economica e civile del Paese; sono divenute meno elitarie, si sono progressivamente aperte alla società; educando milioni di cittadini che ne erano prima esclusi, hanno ridotto le disuguaglianze, ma hanno reso allo stesso tempo più difficile conseguire un elevato standard qualitativo. Nel corso dei decenni gli interventi di riforma del sistema scolastico e universitario nazionale hanno solo in parte recepito le nuove istanze per una efficace transizione di una massa crescente di studenti ai gradi più elevati di istruzione, oggi più che mai indispensabili alla luce dei mutamenti in atto nel mercato del lavoro dei paesi avanzati.
Il deficit di istruzione resta preoccupante, per il ritardo con cui si è dato avvio in Italia alla scolarizzazione di massa e per le più sfavorevoli dinamiche demografiche. Nonostante i significativi progressi conseguiti nell’innalzare il livello di istruzione dei più giovani, nel 2005 la quota di diplomati nella fascia di età tra i 25 e i 64 anni era solo del 37,5 per cento, un valore inferiore di quasi otto punti alla media dei paesi dell’Ocse. Ancora più elevato era il differenziale nella quota di laureati, che in Italia raggiungeva appena il 12 per cento, la metà della media dei paesi dell’Ocse. Dato il più rapido invecchiamento demografico, l’incidenza dei giovani sul totale della popolazione è tra le più basse nel confronto internazionale. Ne discende che i progressi conseguiti dalle nuove generazioni hanno un limitato impatto sui livelli medi di istruzione della popolazione. Troppi adolescenti non frequentano tuttora la scuola e quelli che lo fanno mostrano maggiori difficoltà nell’apprendere rispetto ai loro coetanei europei: nel 2004 solo 76 ragazzi su 100 conseguivano il diploma, un valore tra i più bassi nel confronto con i paesi avanzati. Secondo le periodiche rilevazioni dell’Ocse gli studenti italiani alla fine della scuola dell’obbligo si collocano agli ultimi posti nell’apprendimento della matematica, avendo accumulato un ritardo pari a un anno; risultato forse non sorprendente, considerando la caduta del numero di studenti nei corsi di laurea in matematica e fisica. Anche nelle altre discipline i risultati appaiono poco confortanti: nella capacità di comprensione di un testo, la quota di studenti con risultati insufficienti si colloca in Italia su livelli nettamente superiori alla media dei paesi europei.
A risultati medi insoddisfacenti si aggiungono ampi divari territoriali a svantaggio degli studenti delle regioni meridionali e un’elevata variabilità tra istituti scolastici. La dispersione dei risultati dell’apprendimento dei quindicenni è tra le più elevate dei paesi Ocse.
Pur in presenza di una scuola pubblica, il grado di istruzione e il reddito delle famiglie di provenienza rimangono determinanti: se la qualità delle scuole è differenziata e non vi è trasparenza informativa solo genitori “istruiti” sapranno guidare i propri figli verso le classi e i professori migliori.
I nostri problemi non dipendono da un ammontare inadeguato di risorse pubbliche destinate all’istruzione scolastica. La spesa per studente nella scuola dell’obbligo e in quella secondaria è anzi più elevata rispetto alla media dei paesi dell’Ocse, per effetto non già di maggiori retribuzioni pro capite del personale docente, bensì di un più alto rapporto numerico tra docenti e studenti: in Italia ogni cento alunni vi sono 9,4 insegnanti nelle scuole secondarie e 9,2 nelle scuole elementari, a fronte di valori pari a 7,4 e 6,1 nei paesi dell’Ocse e a 8,5 e 6,8 nella media dei paesi europei. Sull’alto rapporto insegnanti/alunni in Italia influiscono scelte di politica sociale, come l’ampio sostegno agli studenti diversamente abili e la fornitura di servizi educativi in loco anche a comunità di piccole dimensioni sparse sul territorio. Ma pur tenendo conto di questi fattori, il divario con gli altri paesi rimane elevato, riflettendo tra l’altro la frammentazione degli insegnamenti, e non si traduce in una miglior qualità dei risultati scolastici. Pesano carenze nell’organizzazione e nella motivazione del personale.
Gli effetti sulla crescita economica derivanti da un innalzamento dei livelli medi di istruzione possono essere più o meno intensi a seconda degli indirizzi formativi che si promuovono: sono più efficaci quelli che accrescono la mobilità di impiego dei lavoratori e, soprattutto, la diffusione di nuove idee. Negli Stati Uniti la maggiore diffusione di conoscenze di base ha bene accompagnato l’accelerazione del progresso tecnico, contribuendo ad ampliare il vantaggio di crescita nei confronti dell’Europa continentale.
Le scuole tecniche e gli istituti professionali, basati su percorsi specialistici, hanno tradizioni antiche, soprattutto in Germania, dove hanno sostenuto lo sviluppo economico e sociale dall’inizio del secolo scorso. Sono nati in un’epoca in cui la definizione di professionalità era molto più circoscritta e stabile che non oggi, fondata com’era su modalità di lavoro e su conoscenze relativamente durature nel tempo. Oggi è diffusa l’esigenza di modificare in parte non trascurabile la vocazione di questo tipo di scuole, perché occorrono in misura maggiore conoscenze che siano adattabili a contesti tecnologici dai confini assai più labili e soggetti a continui mutamenti. Pur riconoscendo il ruolo importante che le scuole tecniche e professionali svolgono ancora per il nostro sistema produttivo, la formazione scolastica può essere maggiormente indirizzata verso l’acquisizione di abilità generali, che siano anche di incoraggiamento a proseguire gli studi fino ai gradi più elevati.
Questo ci porta a discutere brevemente dell’università. Nella popolazione più giovane, compresa tra 25 e 34 anni, la quota che in Italia completa un corso di studi post-secondari, nonostante il significativo recupero negli anni più recenti sulla spinta nel nuovo ordinamento del 2002, è ancora al di sotto della media dei principali paesi industriali. I tassi di abbandono nell’università sono pari al 60 per cento, quasi il doppio rispetto alla media degli stessi paesi. L’incidenza dei laureati che conseguono un titolo di specializzazione post-laurea permane in Italia molto bassa, collocando il nostro paese alla quart’ultima posizione fra i paesi dell’Ocse. Il recente incremento nel numero di laureati si è concentrato nei nuovi percorsi a breve durata. Nello scorso biennio, le nuove iscrizioni si sono indirizzate soprattutto verso le aree giuridiche e politico-sociali.
Più in generale, la composizione per corso di studi degli studenti universitari italiani appare sbilanciata, nel confronto internazionale, verso le discipline umanistiche e sociali a scapito di quelle tecniche e scientifiche. Parte del fenomeno è da imputare al fatto che negli altri paesi i diplomi universitari di durata ridotta sono, diversamente che in Italia, prevalentemente orientati verso lo studio delle materie tecniche. Ma un’altra parte della spiegazione sta nelle elevate rendite di cui godono alcune professioni, rendite che distorcono le scelte delle famiglie, e nella insufficiente domanda di qualifiche tecnico-scientifiche alte da parte delle imprese.
Le risorse pubbliche destinate all’istruzione post-secondaria sono relativamente minori in Italia che in molti altri paesi avanzati. Questo è anche il contraltare delle maggiori risorse destinate all’istruzione primaria e secondaria. La scelta politica di fondo è stata quella di privilegiare i primi ordini scolastici a scapito dell’investimento in conoscenze avanzate. Non è una scelta lungimirante in un mondo in cui l’innovazione è la chiave di volta dello sviluppo.
Le risorse pubbliche impiegate in Italia appaiono ancora minori nel confronto con quelle messe in gioco nei sistemi universitari di stampo anglosassone, che pure vedono la prevalenza di atenei privati. E’ però diversa la forma che assumono gli interventi: ad esempio, negli Stati Uniti prevale il finanziamento diretto degli studenti meritevoli e delle loro famiglie, attraverso borse di studio e prestiti personali; in Italia, come nel resto dell’Europa continentale, è di gran lunga prevalente il finanziamento delle strutture universitarie.
La trasparenza e il pubblico accesso al processo di valutazione contribuiscono a rafforzare il confronto tra le università, accrescendo la consapevolezza delle scelte degli studenti, soprattutto di quelli meno inseriti nei circuiti informativi più ricchi. E’ auspicabile che ciò costituisca il primo gradino di un’azione tesa a stimolare la concorrenza tra università, accrescendo gli incentivi all’innalzamento degli standard di qualità nella ricerca e nella didattica, nella selezione dei docenti.
Nella scuola, nell’università, una più esplicita, consapevole apertura al merito evita che siano mortificati i talenti migliori, se assistita da opportune misure di sostegno degli studenti meritevoli non abbienti.
Il riconoscimento del merito non è garanzia di equità, ma, senza, la società è sicuramente più iniqua, perché accentua la discriminazione generata dalle condizioni di partenza; allo stesso tempo, è anche più povera, perché spreca le sue risorse. Sapremo ritrovare, ne sono convinto, l’unità d’intenti che sola può far progredire l’istruzionedel Paese, quell’unità su cui, a partire dal dopoguerra, è stato fondato il progresso del sistema educativo italiano.”
9 risposte a “Senza merito la società è più iniqua”
Invito chi fosse interessato a dare uno sguardo al manifesto di Democrazia Giovanile, reperibile su http://www.democraziagiovanile.it
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