Avevo 15 anni, frequentavo la prima liceo scientifico ed ero stato rimandato in matematica. L’estate 1984 era dunque rovinata. Il mio professore mi consigliò di rivolgermi a “un giovane professore, che segue il mio metodo” e io cosÏ feci.
Mi accolse in casa un ragazzo meno che trentenne, altissimo, coi capelli lunghi e vestito un po’ alla maniera in cui erano soliti apparire i giocatori di basket negli Stati Uniti. Mauro Ferrari, questo il suo nome.
Un giovane brillante di grandi speranze che allora lavorava saltuariamente all’Università di Udine e per arrotondare impartiva lezioni private agli studenti mediocri come me. Mauro era vissuto per lunghi periodi negli Stati Uniti e là aveva ormai eletto la sua vera dimora. Appariva rassegnato all’idea di dovere fuggire all’estero perché le sue straordinarie doti fossero riconosciute e valorizzate: si era adeguato a viaggiare in continuazione tra Berkley e l’Italia e il nomadismo interessava naturalmente anche la sua famiglia, allora formata dalla moglie e dal gatto, inevitabilmente battezzato con il nome di Profugo.
Superati gli esami di riparazione continuai a seguirlo a distanza. Si era trasferito definitivamente negli Stati Uniti.
Lo rividi all’inizio degli anni ’90 quando si seppe che l’allora preseidente statunitense Clinton gli consegnò una borsa di studio del valore di mezzo milione di dollari per le ricerche da lui effettuate in campo scientifico per combattere i tumori. Poco tempo dopo, su invito del suo liceo tornò in Itaila per raccontare i propri successi. Decisi di andare a seguire l’incontro. Mentre parlava agli studenti non mancò di fare capire le ragioni che l’avevano portato a scappare: il baronato delle università era riuscito ancora una volta a togliere di mezzo un individuo dalle capacità del tutto straordinarie. Il professor Ferrari riuscì a trasmettere quel senso di nausea e rabbia a tutti gli astanti che rimasero quasi increduli nel sentirlo quasi inveire contro il suo paese natale quando tutti da lui probabilmente si attendevano invece il tipico discorso di ringraziamento con qualche nota malinconica nel ricordare la gioventù che fu e i “bellissimi anni del liceo”. Il professor Ferrari fu il primo cervello in fuga che ho conosciuto nella mia vita. Ma non certo l’ultimo. Opportuno dire che solo due anni dopo avere fatto la sua conoscenza iniziai a mia volta le mie “fughe”…
3 risposte a “Il mio primo cervello in fuga – Federico Lazzarovich”
Sono un ragazzo di Orbetello e frequento la 4° Liceo Scientifico a Grosseto,quest’anno il mio professore ha organizzato la gita scolastica a San Francisco dove ho conosciuto per la mia prima volta cervelli in fuga,è stata una tristissima esperienza.Pensare di non avere un futuro in Italia nella ricerca ti travolge e ti sconvolge.Ho conosciuto una ragazza che ha frequentato il mio stesso Liceo ed ora lavora per il governo degli Stati Uniti d’America,un altro ragazzo sempre del mio Liceo che lavora a Berkeley come fisico teorico,una signora di Napoli che fa ricerca sulle staminali,e tanti tanti altri di Torino,di Pisa,di Como.Tutto questo mi ha fatto pensare al fatto che l’unico problema in Italia sono gli Italiani,la tipica mentalità di “paesello” basata sul principio che va bene così,che si può andare avanti così…purtroppo non è così.Non si può continuare a credere di dover riparare i danni di governi precedenti,perché è come riverniciare un muro storto,migliorare migliora,ma rimane storto.Bisogna iniziare da zero,costruire e per far questo sono pienamente convinto che l’attuale classe dirigente ormai è troppo vecchia,troppo ricca,e troppo povera di idee.
Io ora lavoro in Olanda, dopo essere stato praticamente costretto all’espatrio come il protagonista del racconto. A me piacerebbe ritornare nella mia universita’ e dire agli studenti tutte quelle cose che vengono taciute dalla combriccola dei baroni e dei loro lacche’. Quali? beh, per cominciare il fatto che l’italia laurea un sacco di persone in ambito scientifico/accademico ma che sono ben pochi i posti disponibili per un futuro accademico nel belpaese. Curiosamente, nonostante sia in ottimi rapporti con i miei ex-docenti, non mi chiamano mai ad esporre la mia testimonianza…
Cordiali saluti a tutti,
Il Mio nome è Francesco-Alessio Ursini e sono un Ph.D. candidate al MACCS (http://www.maccs.mq.edu.au). Due parole dal mio punto di vista. Una cosa: non mi considero un cervello in fuga, anche se poi secondo vari criteri non sono scemo. Quanto alla fuga, non saprei.
1. L’Italia, accademicamente parlando, è una versione esasperata di una mentalità grosso modo europea. Ho una laurea Italiana ed un M.Phil. (Linguistica) dell’Università di Utrecht. Circa un anno fa feci varie domande per una posizione di Ph.D., sia in Europa che negli US. In Europa ho ottenuto una posizione laddove il mio programma di ricerca era favorito al dipartimento e le mie lettere di presentazione ben accette. Negli US, qui in Australia (ed a Barcellona) hanno valutato il progetto in base alla fattibilità e alle precedenti valutazioni.
In generale, in Europa, un dipartimento prende studenti interni al proprio dipartimento, così si sa cosa fanno. In Italia si prende anche una buona fetta di °raccomandati°, ma spesso il figlio eredita anche il tipo di ricerca, oltre alla cattedra, per così dire.
2.
Il mondo accademico Italiano soffre, come tutte le altre parti della °vita italiana°, di nanismo culturale. A volte c’è l’uomo forte (od il gruppetto produttivo) che traina il dipartimento, e capita che questo dipartimento si ritrovi ad essere quotato sul serio, ma nel complesso le università non sono molto oltre a °super-licei°.
Se uno prende il THES (il Times Higher Education Supplement) del 2006, mi pare che alcuni dipartimenti Italiani figurino bene nei propri settori, ma le università se la passino maluccio. Direi che chi fa ricerca, in Italia, lo fa per una sorta di pia abnegazione alla propria onestà intellettuale, ma i più si premono di insegnare il minimo che purtroppo gli tocca, senza puntare a scoprire cose nuove.
Nota Bene: A differenza del famoso °Shangai ranking° (o come si chiama, ), il THES valuta soprattutto il numero di pubblicazioni per personale docente, il coefficiente di citazioni, altre cose che non ricordo (link in Inglese qui: http://en.wikipedia.org/wiki/Academic_Ranking_of_World_Universities).
3. Non c’entra nulla, ma consiglio a chi voglia fare ricerca di studiare °altrove°. Non riesco a capire una certa ossessione a rimanere a casa, barattando “la pasta della mamma” per la possibilità di poter accedere a risorse per la ricerca infinitamente migliori.
A vivere in Australia mi rendo conto di quanto Ryanair abbia fatto l’Europa più di qualunque altra retorica di maniera. Ad esempio, molti miei colleghi in Utrecht passano il week-end a casa con poche ore di aereo ed un centinaio di euro, qui il low-cost ancora non è così low-cost come in Europa, e poi si rimane sempre nello stesso paese, sotto le 5 ore di volo. Non ho la spiegazione scientifica da presentare, ma penso che poter lavorare in un centro di ricerca all’avanguardia dal Lunedì al Venerdì e poi tornare al paesino adorato (…non da me) a giocare a scopone il Sabato possa essere un ottimo stimolo alla sprovincializzazione. Sempre che quest’ultima sia vista come un buon risultato, ovviamente.
Onestamente, il livello culturale Italiano è molto basso, sembra che nessuno legga o faccia lo sforzo di costruirsi una cultura valida e non antiquata, o di costruire un ragionamento che sia anche vagamente sensato, etc etc etc. Anche nelle belle giornate dei week-end australiani, è facile trovare le librerie affollate, foss’anche da lettori di Harmony.
Un grazie ad Ivan per lo spazio.
Francesco-Alessio