La prima volta a Washington avevo piu’ o meno 23 anni, una laurea alla Bocconi e tanta speranza in un futuro di opportunità.
Quel viaggio, sostanzialmente turistico, aveva il vantaggio di offrire una immersione nella vita dei ragazzi americani con i quali l’amico tedesco che mi ospitava intratteneva rapporti di amicizia e collaborazione professionale. La prima esperienza in questo senso è Sarah, una bella ragazza piena di entusiasmo e di vitalità come spesso sono gli Americani – questo popolo che noi europei blasé vediamo come ingenui cuorcontenti pieni di un’energia vagamente ridicola e spesso fuori luogo in questo mondo dove si è gli ultimi oggi per essere i primi domani.
Sarah non fa eccezione. Laureata alla George Washington University, lavora al Washington Post. Da italiano cresciuto nella sacra ammirazione per i giornalisti, trovo Sarah stranamente non coerente con l’immagine dell’opinion maker di casa nostra, autorevole, polemico e soprattutto con una posizione sociale prestigiosa…
Sulla porta, pronto per un giro ai musei (tutti gratuiti) della zona dei palazzi del potere americano, incontro Sarah, fresca e allegra come sempre, che mi chiede cortese quali piani ho per la giornata. Le dico che vado al Mall – per me, italiano di buona cultura classica come spesso noi siamo, il Mall non ha bisogno di essere accompagnato dalla parola “National” per evocare quel lunghissimo rettangolo circondato di monumenti e musei, delimitato a un’estremità dal Campidoglio degli Stati Uniti e dall’altro dal Memoriale a Lincoln, impreziosito dalla Casa Bianca su uno dei due lati. Per Sarah, come per la maggior parte degli Americani, il mall ha la M minuscola, ed è il centro commerciale, dove il tempo si passa tra spese spesso inutili, divertimenti, cinema, spuntini più o meno ricchi e potenzialmente distruttivi per l’organismo. Da lì un divertente vaudeville di errori e di confusioni che ha fatto la sua piccola storia. Ma soprattutto da lì la domanda, sempre più inevitabile, di come una laureata da un’universtità di medio livello, e che confonde il luogo più topico della Nazione con un centro commerciale abbia il privilegio di lavorare per uno dei quotidiani più prestigiosi della Superpotenza mondiale. La chiave di questa domanda è una parola che la compone: privilegio.
Da italiano, la mia Weltanschauung era (e mi chiedo se lo sia ancora adesso, nonostante tutto) che per entrare a fare parte della Rosa dei Beati serve l’aiuto di un Beato. Quando si era mai sentito di qualcuno che conoscessi, anche molto alla lontana, che avesse trovato lavoro al Corriere della Sera? Come si faceva a lavorare al Corriere della Sera, in effetti?
Interrogata al riguardo, Sarah, nella sua spontaneità e apertura, risponde nel modo più ovvio: per lavorare in un giornale devi andare a scuola di giornalismo. Già la parola: non università, accademia, ateneo, ginnasio, propileo… ma semplicemente scuola, suonava promettente, democratico, aperto, trasparente. Vuoi fare il meccanico: vai a scuola di meccanica. Vuoi fare il dottore: vai a scuola di medicina. Vuoi fare il giornalista? vai a scuola di giornalismo. Questo è quello che mi dice il sistema americano. Che cosa mi dice quello italiano? Non mi sembra che ci sia una scuola di giornalismo a Milano. O sì? Ma se c’è, com’è che non mi sembra di saperne niente? Mi chiedo se le informazioni riguardo a questa scuola e riguardo alle borse di studio per frequentarla siano di facile accesso… O forse per fare il giornalista in Italia non serve andare a scuola di giornalismo… Ma allora per fare il giornalista che cosa bisogna fare? La terribile, triste, desolante risposta che viene, spontanea, quasi fosse una maledetta verità innata platoniana, è che bisogna conoscere un giornalista, averne uno nella famiglia, o usare ogni mezzo, inclusa la piaggeria e il compromesso, per ingraziarsene uno, che ci guidi attraverso le asperità fissate dall’ineffabile Ordine (con una O enorme) dei giornalisti. E se non si ha l’opportunità di accedere, anche da lontano e piccoli piccoli, a un giornalista? E beh la risposta è quel misto di rassegnazione, di amarezza e di chimelofafare che trovo sempre piu’ nel sorriso dei miei amici e conoscenti italiani quando chiedo loro come va il lavoro – quel lavoro da 1500 euro netti al mese che permette loro una vita tutto sommato tranquilla, senza rischi e senza grandi responsabilità. Quel lavoro che li vede fare gavetta da quando ho fatto le valigie più di 10 anni fa, per non avere lo stesso sorriso.
2 risposte a “Beati – Giancarlo Bruno”
una gavetta di 1500euro al mese? immagino tu stia parlando di milano, cittta’ notoriamente costosa e dove 1500euro non sono certo un’esagerazione (anzi). Anyway, articolo interessante, forse scritto un po’ troppo prolisso. Purtroppo oramai queste sono cose che sappiamo tutti da anni, per non dire “da sempre”…
@ Giancarlo, benvenuto nella tribù 😉
sì, esiste una scuola di giornalismo a milano, ma la risposta te la sei già dato da solo.
x quanto riguarda invece quelli che vogliono fare i giornalisti…fanno i pubblicisti; perchè in Italia esiste l’albo dei giornalisti e poi la sottocasta dei pubblicisti, che dovrebbe comprendere solo coloro che fanno del giornalismo la loro seconda o terza professione (vd. prof universitari ect.) ma che in realtà raccoglie una fetta sostanziosa di chi il giornalista lo fa x davvero e x campare, campare x modo di dire perchè sono tutti collaboratori a rimborso spese o giù di lì. Con buona pace dell’indipendenza del diritto di cronaca.
@ Filippo
hai ragione, queste cose si sanno, ma è sempre il caso di confrontarci con quello che succede fuori perchè si fa l’abitudine a tutto…