5 Settembre 2007

La globalizzazione del capitale umano – Giancarlo Bruno

Cervelli in fuga

In un mondo globalizzato, dove le economie sono sempre più intensamente interrelate, capire I processi e I sistemi economici al di là dei propri confini nazionali sembra l’abc del professionista di oggi.
Sulla globalizzazione si profilano due scuole di pensiero: una che vede il mondo sempre più piatto (flat world) dove le regole del gioco del sistema economico mondiale sono uguali per tutti, e una seconda che vede il mondo sempre più polarizzato, con nuove economie e nuovi attori geopolitici ed economici che richiedono una conoscenza sempre più approfondita delle diversità.


Curiosamente, in entrambi i casi è fondamentale conoscere la lingua dell’economia internazionale, capire le regole del gioco, sapersi muovere secondo gli schemi accettati internazionalmente e nelle frameworks anglosassoni che fanno ancora da modello di riferimento. Allo stesso tempo, una conoscenza sempre più sofisticata delle nuove potenze economiche, delle loro ambizioni e delle loro specificità sembra sempre più rilevante.
Sviluppare una vera dimensione internazionale è quindi indispensabile e deve fare parte del profilo di chiunque voglia avere delle responsabilità di gestione micro e macro dell’economia. Allo stesso tempo, però, se da un lato è naturale la necessità di litteracy economica internazionale, dall’altro questo non deve servire da alibi a un sistema economico per nascondere o sopperire alla mancanza di opportunità nel proprio mercato di riferimento. In altre parole, sviluppare una cultura e una dimestichezza internazionale, come ogni provincia di un impero (l’economia globale in questo caso) deve fare per assicurarsi la partecipazione e preservare la propria competitività, è in effetti utile, necessario e anche indispensabile.
Questo dovrebbe idealmente rappresentare una fase della preparazione accademica e professionale dell’attore economico, e non un punto d’arrivo. Quello che invece spesso capita è che l’esperienza internazionale, maturata per approfondire la conoscenza dei meccanismi di cui sopra, si trasforma in esilio permanente, a causa della mancanza di opportunità offerte dal paese di provenienza, che da provincia dinamica diventa protettorato sempre più marginale e irrilevante.
Questa permanenza all’estero più o meno forzata del capitale umano, lungi dall’essere un elemento di orgoglio per il paese, rappresentato da tanti professionisti brillanti e di successo nelle zone chiave del dinamismo economico mondiale, dovrebbe suonare il campanello d’allarme del rischio di un disincentivo a impiegare le conoscenze acquisite all’estero nel proprio paese d’origine. Un sistema inefficiente, in cui l’allocazione delle risorse, siano esse di capitale finanziario o umano si fanno secondo le regole della cooptazione e non quelle del mercato, è per definizione destinato a perdere i talenti migliori a vantaggio dei propri competitori esteri. Quindi internazionalizzazione
assolutamente si, ma idealmente come tappa della formazione del professionista globale, e non come soluzione definitiva e subottimale ai problemi di un sistema economico distorto e poco trasparente.