15 Settembre 2008
La famiglia dell'ambasciatore
Sono tornato a Londra sano e salvo questa mattina, nonostante Ike. L’Unità pubblica oggi la mia intervista a Michael Guest che ho incontrato ad Austin al Summit di Out & Equal. Mike è l’ambasciatore statunitense dimessosi dal Corpo Diplomatico nel dicembre scorso dopo che il Dipartimento di Stato aveva rifiutato di riconoscere al suo partner i benefit e le garanzie previste per i coniugi dei diplomatici americani in missione all’estero.
«Per tre anni ho chiesto in ogni modo al Segretario di Stato Condoleezza Rice di modificare le regole che discriminano i dipendenti gay e lesbiche del Dipartimento di Stato senza ottenere una risposta. Mi sono quindi trovato nella situazione di dover fare una scelta tra i miei doveri verso il mio compagno – che è la mia famiglia – e il mio servizio al Paese. Il fatto che una persona si sia trovata a dover compiere una scelta di questo tipo è una macchia per la leadership del Segretario di Stato ed è una vergogna per questa istituzione e per il nostro Paese». Michael Guest, diplomatico ed esperto di affari europei, è stato il primo americano apertamente gay a diventare ambasciatore. Si è dimesso a 50 anni, nel dicembre del 2007, e le parole nient´affatto diplomatiche che ha pronunciato alla cerimonia di chiusura della sua carriera hanno fatto molto rumore nelle stanze ovattate del Dipartimento di Stato fino a rimbalzare sulla stampa Usa ed internazionale. Ho incontrato Guest al Summit annuale di Out & Equal, l´organizzazione no profit americana che si batte per la parità dei diritti della comunità GLBT (gay, lesbiche, bisessuali transgender) nei luoghi di lavoro.
Dato che conosci bene l´Italia dove le professioni si trasmettono di solito di padre in figlio, non ti stupirai se ti chiedo se la vocazione per la diplomazia ti è stata trasmessa con il sangue. Ambasciatore e figlio di ambasciatore?
«Nient´affatto. Sono nato da una famiglia povera e religiosissima del Sud Carolina ma ho avuto una passione per la politica estera sin da ragazzino. Divoravo i giornali già durante l´adolescenza e a 18 anni ho preso un pullman e me ne sono andato a fare lo stagista a Washington. Dopo l´Università mi sono iscritto al concorso per il Corpo Diplomatico e l´ho vinto. Tutto qua. Certo, il primo giorno di lavoro si vedeva chiaramente che ero quello col vestito di taglio peggiore ma è stata la conferma del fatto che la diplomazia americana è un´istituzione meravigliosamente aperta e meritocratica. Del resto, nonostante l´abito, sono stato il primo della mia classe a diventare ambasciatore».
A che punto della carriera hai reso pubblica la tua omosessualità?
«È stata una cosa molto naturale, non ho fatto un vero e proprio coming out, mi sono solo limitato a rispondere sinceramente alle domande. Se qualcuno mi chiedeva se ero sposato dicevo di no, e se in quel momento ero in una relazione dicevo molto serenamente che avevo un compagno».
E il fatto che la tua omosessualità fosse nota a tutti al Dipartimento di Stato ha limitato o rallentato in qualche modo la tua carriera?
«Assolutamente no. Essere gay non è mai stato un problema al punto che quando ho giurato nelle mani di Colin Powell prima di partire per Bucarest ho voluto che il mio compagno, Alexander, fosse accanto a me. A dire la verità molti colleghi mi avevano sconsigliato di fare un passo del genere dato che in Campidoglio ci sono molti conservatori che non avrebbero certamente gradito. Ma Alexander è la mia famiglia: stiamo insieme da 12 anni. Eravamo già stati tre anni a Praga per il mio lavoro e mi sembrava naturale che fosse lì con me. In fondo per poter seguirmi nella carriera ha dovuto fare anche lui scelte difficili e cambiamenti».
Come l´hanno presa a Bucarest?
«Non benissimo. Il giorno del mio arrivo i giornali dicevano che era arrivato il nuovo ambasciatore degli Stati Uniti. Virgola, un omosessuale. Per tre mesi non si è parlato d´altro, al punto che alla fine di una conferenza stampa ho dovuto io stesso sollecitare i giornalisti a rivolgermi tutte le domande sull´argomento. È stata l´occasione per dire a chiare lettere che il mio orientamento sessuale era del tutto irrilevante e che il mio ruolo era esclusivamente quello di rappresentare il governo degli Usa in Romania».
Quando sono cominciati i problemi che ti hanno portato a decidere di dimetterti?
«Alla fine del mio incarico in Romania sono diventato il direttore della scuola di formazione del Dipartimento di Stato. Un giorno mi si è avvicinato uno studente e mi ha detto che si era appassionato alla diplomazia dopo aver letto della mia storia sui giornali. Era gay e pensava che non avrebbe avuto nessuna possibilità nel Corpo Diplomatico ma poi era venuto a conoscenza del mio caso. Il fatto che questo giovane collega si fosse ispirato a me mi ha da un lato inorgoglito ma dall´altro mi ha fatto pensare anche agli ostacoli ancora da rimuovere, primo di tutti quello di estendere alle nostre famiglie i diritti e le protezioni che sono riconosciute alle famiglie degli altri colleghi».
A quali diritti ti riferisci in particolare? In fondo tu ed Alexander eravate già stati a Praga e a Bucarest senza che gli fosse riconosciuto alcun benefit.
«È vero ma la situazione si sarebbe fatta sempre più difficile. Ti faccio solo il caso estremo: nel caso avessi accettato una destinazione in zona di guerra non avrei avuto nemmeno la garanzia che in caso di emergenza il mio compagno fosse evacuato dall´esercito insieme a me. A parte questo c´è il discorso che il partner di un ambasciatore ha una serie di incombenze e di incarichi che servono anche a garantire un miglior funzionamento della sede diplomatica. Per questo serve training, tempo e il riconoscimento ufficiale di quel ruolo».
Quindi hai chiesto che Alexander fosse coperto dagli stessi benefit che spettano ai coniugi. Una cosa normale per molte aziende Usa: quando mi sono trasferito a Mosca, il mio Federico è stato equiparato al 100% a un coniuge.
«Esatto, ma non è così per noi. Mi sono rivolto a due Direttori Generali del Dipartimento di Stato, al Sottosegretario, e alla fine ho scritto a Condoleezza Rice. Rice ha vissuto sulla sua pelle la discriminazione come persona afro americana. Io lo so, vengo dal Sud, ho visto da bambino le cose che ha passato. Ho visto io stesso quelli del Ku Klux Klan, con i cappucci in testa, bruciare le croci e sfilare con le loro bandiere. È questo che ho scritto al Segretario di Stato: che proprio lei, con un´esperienza di vita come la sua, non avrebbe dovuto tollerare alcuna discriminazione. Non ne ho fatto solo una questione di diritti gay ma ho spiegato le implicazioni del problema dal punto di vista della correttezza, dell´equità, anche del buon funzionamento dell´ufficio. Dopo tre mesi di silenzio ho capito che non mi avrebbe risposto, e, con un senso di enorme lacerazione interna, ho deciso di lasciare il servizio».
E cosa fai ora? Non sembri uno che resta fermo per troppo tempo…
«Sto lavorando alla campagna di Obama, faccio parte di tre gruppi di lavoro del suo staff. E poi farò parte di una nuova organizzazione, il
«Council for Global Equality», che nasce il 23 settembre e che riunisce tutta una serie di altre organizzazioni no-profit, tra le quali Out&Equal e Amnesty International, per spingere sul governo degli Usa affinché utilizzi il suo peso politico ed economico per fare pressione su quei paesi in cui i gay sono discriminati o perseguitati. Fa parte del Dna degli Usa e credo che il mio governo debba utilizzare la sua influenza per aumentare l´attenzione sui diritti civili e sulla povertà in tutto il mondo».
5 risposte a “La famiglia dell'ambasciatore”
è strano che né l’intervistatore ,né l’intervistato abbiano riferito che ,secondo la legge americana,il governo federale,e quindi anche il segretario di stato, possono riconoscerecome esistenti solo i matrimoni eterosessuali(vedere a proposito il defense of marriage act).la discriminazione è stata ordinata dal congresso e l’esecutivo non ha poteri discreionali nell’interpretare una legge che è molto chiara nella volontà di discriminare .le soluzioni sono due 1 il congresso democratico abroga il doma(ipotesi valida solo se vincerà obama;mccain ha votato per il doma e lo sostiene ancora.2 la corte suprema dichiara nullo il doma,ma ciò,vista la composizione della corte ,è molto difficile. concordo con intervistatore e intervistato che c’è da sperare in una solida vittoria di obama.
Plis visit Italy (and Vatican) …….
Illuminante l’intervista a Mr. Guest.
Chissà se lui potrebbe dire, come ha fatto Imma Battaglia su “La Repubblica” di domenica scorsa, che gli omosessuali nel suo paese non sono discriminati?
Forse Imma vuole invitare Guest in Italia, per fargli vedere come viviamo splendidamente qui nel Belpaese.
che tosto, questo Guest!
che tosto, questo Guest!