Il mio pezzo su L’Unità di oggi.
“La vicenda dei 400 lavoratori in ansia per le sorti della raffineria di Livorno che l’ENI ha deciso di cedere a un fondo d’investimento americano è solo l’ultima di una serie di storie che hanno costellato la nostra estate. La INNSE, la CNH di Imola e molte altre situazioni in tutta Italia hanno riaffermato il difficile periodo che stiamo vivendo e di cui il governo alternativamente nega l’esistenza, proclama l’avvenuto superamento o raccomanda – nei momenti di massima euforia creativa – di superare con l’applicazione di forme di acritico ottimismo. Il fatto è che ci troviamo in una situazione di crisi globale che ha trovato l’Italia impreparata non solo sul piano economico ma anche su quello giuslavoristico con il risultato che talune scelte imprenditoriali – talvolta soltanto opinabili, talvolta semplicemente sbagliate – maturate in questo difficile contesto sono state messe in discussione attraverso forme di protesta drammatiche che hanno procurato grande allarme nella pubblica opinione. Il nostro diritto del lavoro e il nostro sistema di ammortizzatori sociali non consentono oggi a nessuno, se non a pochi privilegiati, di dormire sonni tranquilli. Chi è entrato nel mondo del lavoro da poco o si accinge ad entrarci, lo fa spesso in forza di forme contrattuali che definire precarie è un eufemismo. Chi già lavora, invece, sa che nelle condizioni correnti l’espulsione dal mercato del lavoro è un viaggio di sola andata da affrontare senza nessuna protezione se non quella di una possibile reintegrazione nel posto di lavoro (sempre che, ovviamente, sia ancora fisicamente possibile). Questo mette i lavoratori in una situazione senza uscita, nella quale il mantenimento del proprio status quo diventa l’obiettivo di massima e non quello di minima: in una fase storica in cui la forbice retributiva si è andata allargando al di là di ogni ragionevolezza anche la mobilità verso datori di lavoro più solidi, professionali e quindi verso posti di lavoro più sicuri – dinamica tipica degliStati Uniti e dei paesi nord europei – è diventata un ulteriore benefit riservato esclusivamente alla dirigenza, con un ulteriore paradossale allontanamento tra i primi e gli ultimi, a tutto vantaggio dei primi. Il fatto di poter approfittare di una forza lavoro assolutamente statica e di non dover quindi competere sul mercato del lavoro non ha poi incentivato in alcun modo lo sviluppo di una cultura dell’impresa più seria e responsabile. Richiamare il mercato per attaccare gli operai di Livorno che si difendono da un’operazione il cui senso industriale è francamente difficile da cogliere, è dunque operazione politica fatta in assoluta cattiva fede da parte di chi, come il nostro centro-destra, ha ampiamente dimostrato negli anni di essere lontano da un’idea di mercato aperta, rigorosa e libera dai monopoli.”
Una risposta a “Cosa ci dicono gli operai di Livorno”
[…] secondo racconta quello che ci dicono gli operai di Livorno e riprende una proposta per “ripulire” il […]