Ho scritto un articolo sulla Diversity che è stato pubblicato da “Meta”, la rivista dei Consulenti di Management.
Utilizzare al massimo il proprio capitale umano. Questa è la “HR business proposition” delle aziende, soprattutto multinazionali anglosassoni, che hanno deciso di lavorare e investire sulle pari opportunità in azienda, quello che in inglese si chiama “Diversity Management”. E’ molto di più di una semplice proposizione politicamente corretta, l’idea che c’è alla base è semplice ma quanto mai basata su una visone strategica orientata al benessere e al successo (anche finanziario) del business: se è vero che le migliori aziende del mondo sono quelle che possono contare sui collaboratori più preparati, motivati e capaci, se è vero insomma che è il talento la chiave del successo, allora il talento va cercato ovunque si trovi e va protetto e sviluppato in qualsiasi forma si presenti. La sfida è accettare che chi siede al vertice aziendale non è sempre un maschio, bianco, eterosessuale, cristiano e perfettamente abile e questo comporta un’attenzione fortemente focalizzata su una serie di parametri che non sono solo numerici, ma anche qualitativi: non basta chiedersi quante donne (o neri, o gay, o disabili…) abbiano raggiunto il grado di dirigente o siedano in Consiglio di Amministrazione, ma soprattutto come si faccia, nella filiera del talento, a costruire condizioni favorevoli allo sviluppo del personale indipendentemente dalla cultura, religione, genere, orientamento sessuale, età, abilità o disabilità delle singole persone. La constatazione dalla quale tutto si muove è molto chiara: per qualche ragione le nostre aziende costituiscono un terreno più fertile per certuni che per altri, come si nota anche già nelle fasi di selezione. Esistono molti settori dove alcuni gruppi sono tradizionalmente sottorappresentati o, al contrario, illogicamente sovrarappresentati: nelle dealing rooms delle grandi istituzioni finanziarie – soprattutto sui desk quantitativi – i traders sono tutti rigorosamente uomini, mentre nel settore delle Operations e della tecnologia le persone che provengono dal subcontinente indiano ricoprono moltissimi incarichi, inclusi quelli di vertice; le donne nell’advisory dell’Investment Banking sono mosche bianche, mentre monopolizzano quasi interamente i dipartimenti delle Human Resources (quasi, perché le posizioni di vertice nel HR restano nella stragrande maggioranza appannaggio degli uomini). Perché questo si verifichi è ormai piuttosto chiaro: in primo luogo l’assenza di “role models” abbassa la desiderabilità della posizione: se in quel settore nessuno come me ce l’ha mai fatta perché mai dovrei cimentarmi io? In secondo luogo, poi, la cultura dominante finisce con l’autoperpetrarsi con meccanismi che vanno dall’assumere e promuovere gente che assomiglia a chi già gestisce il potere aziendale all’implementare una serie di comportamenti e di linguaggi che tendono ad essere escludenti nei confronti di alcune categorie di persone. Se l’analisi è questa ne consegue che le aziende si trovano a ridurre in modo del tutto irragionevole il bacino di talento dal quale pescare per le posizioni di ingresso e a perdere qualità e motivazione nella prestazioni dei singoli che si trovano a dover remare contro-corrente, posizione che può indurre stress e frustrazione che possono giungere fino al punto di condurre all’abbandono. Il “Diversity Management” nasce quindi dal tentativo di creare condizioni di vita e di lavoro che rendano l’azienda appetibile come datrice di lavoro di uno spettro di lavoratori il più ampio possibile, mettendo in condizione ciascuno di rendere al massimo nelle condizioni date. E’ una strategia ampia, quasi una filosofia, che può e deve declinarsi poi in moltissime diverse attività: dal recruiting nelle università, a policy di flessibilità degli orari e di telelavoro, all’implementazione di piani di mentoring per particolari categorie di persone, alla revisione dei piani di benefit per le famiglie non in linea con il modello tradizionale, alla assunzione in generale di un linguaggio e di uno stile comunicativo che tenga conto delle differenze, non negandole ma riconoscendole e accettandole. E’ insomma una visione che mette la persona al centro dell’organizzazione aziendale e che riconosce nei fatti il valore determinante del talento umano come fattore insostituibile di successo, anche economico, per le aziende. In Italia siamo ancora molto in ritardo, purtroppo. La concorrenza di caratteristiche culturali di un Paese dal profilo molto più omogeneo di quanto non sembri a noi italiani (le differenze etniche e religiose sono un fenomeno di recente acquisizione e che ha riguardato finora settori produttivi nei quali la forza lavoro tende a essere relativamente fungibile), della struttura della società che tende ad attribuire prevalentemente alle donne il peso dell’assistenza familiare di anziani e bambini e dell’assenza di una vera coscienza di gruppo da parte della comunità GLBT (gay, lesbiche, bisessuali e trans) italiana hanno contribuito a conservare il mercato del lavoro italiano in una bolla che lo ha apparentemente preservato dalla necessità di rivedere profondamente taluni comportamenti organizzativi. Se a questo si aggiunge un sistema di tutele nel quale il lavoratore è assai più protetto dal punto di vista collettivo che da quello individuale, si capisce per quale motivo le strategie di rimozione di fattori di discriminazione all’interno del mondo del lavoro sono ancora indietro rispetto al resto d’Europa. E tuttavia le multinazionali americane, britanniche, olandesi, svedesi, stanno esportando questo modo di vedere anche al di qua delle Alpi. I mutamenti sociali nel tessuto demografico italiano e il prossimo arrivo della cosiddetta “Generazione Y” nel mondo del lavoro e delle professioni fanno apparire chiaro che le aziende destinate in futuro a prevalere anche sul nostro mercato sono quelle che sapranno ottenere il massimo dalle proprie persone. E’ proprio in questo passaggio che il ruolo di consulenti che abbiano una profonda conoscenza delle strategie della Diversity e una sensibilità spiccata per le peculiarità della nostra cultura può diventare decisivo. “Tradurre” in italiano messaggi che se non adeguatamente trasportati e interpretati rischiano di essere respinti istintivamente come strampalati ed estranei è una funzione preziosa che la consulenza è chiamata a svolgere per far sì che il nostro tessuto produttivo non perda l’occasione della leadership in una “guerra per il talento” che costituisce una sfida inevitabile e globale.
Una risposta a “Il "Diversity Management", una ricchezza per le aziende.”
[…] “Diversity Management”, una ricchezza per le aziende. http://www.ivanscalfarotto.it/?p=5339 "messaggi che se non adeguatamente trasportati e interpretati rischiano di essere respinti […]