Il mio pezzo per L’Unità sul matrimonio gay a New York, uscito domenica 26.
«Chiedo scusa a coloro che si sentono offesi. Ma non posso negare a un essere umano, a un contribuente, a un lavoratore, alla gente del mio collegio e dello stato di New York, gli stessi diritti che io ho assieme a mia moglie». Una dichiarazione di una semplicità evidente per il gesto politico probabilmente più complesso nella carriera di Mark J. Grisanti, uno dei senatori repubblicani che, votando in favore della legge, ha consentito l’approvazione della matrimonio tra persone dello stesso sesso nello Stato di New York. Con l’approvazione della legge sul «same sex marriage», New York diventa lo stato Usa di gran lunga più popoloso e importante a introdurre il matrimonio tra persone dello stesso; in più, la presenza nella metropoli di una comunità gay importante numericamente e assai influente dal punto di vista politico e culturale promette di trasformare il diritto al matrimonio ottenuto l’altro ieri come un elemento essenziale nel cammino per l’uguaglianza delle persone omosessuali.
Appena appresa la notizia riflettevo sui tempi del cambiamento dall’altra parte dell’oceano: dal 29 giugno 1969 – giorno della rivolta della comunità gay newyorkese contro le vessazioni della polizia rimasta famosa perché da allora in quella data in tutto il mondo si celebra il «Gay Pride» – al 24 giugno 2011 sono passati esattamente 42 anni. Tra il 1 ̊ dicembre 1955 – il giorno in cui, grazie al rifiuto di Rosa Parks di cedere il proprio posto sull’autobus a un passeggero bianco, nasceva il movimento per i diritti civili dei neri americani – e il 20 gennaio 2009, l’ingresso alla Casa Bianca del primo presidente afroamericano, di anni ne sono passati 53. Chissà che tra due o tre mandati non entri alla casa Bianca la prima coppia presidenziale gay o lesbica, mi dicevo: saremmo esattamente nei tempi. E comunque resta interessante notare come, in entrambi i casi, la linea della rivendicazione e del riconoscimento dei diritti negli Stati Uniti sia stata dritta come un fuso. Dalla totale subordinazione alla parità più piena, senza passare per tappe intermedie.
Tutto il contrario succede qui in Europa, dove la scelta non è stata polarizzata tra il nulla e il matrimonio ma ci si è inventati nel mezzo tutta una gamma di istituti tipo Pacs, Unioni civili, Unioni registrate e quant’altro. Anche in Italia, la cosa più simile a un riconoscimento delle unioni omosessuali cui si sia arrivati sono stati quei Di.Co. tagliati e cuciti con certosina pazienza da Rosy Bindi e Barbara Pollastrini all’epoca dell’ultimo governo Prodi. E così anche oggi, nei lavori della Commissione Bindi che sta meritoriamente lavorando al programma del Pd sui diritti civili, ciò che continuo da più parti a sentire è che, certo, una normativa è necessaria. Ma anche che una coppia gay o lesbica necessita di un trattamento differenziato in quanto che «a situazione diversa deve corrispondere un trattamento normativo diverso». Non si capisce, o più probabilmente non si vuole capire, che una coppia gay o lesbica non è nient’altro che una coppia.
Che l’amore che lega quella coppia non ha in sé nulla di diverso dall’amore che lega una coppia eterosessuale. E che anche i bisogni di una coppia omosessuale non hanno nulla di differente: essere riconosciuti davanti alla società, vedersi attribuiti diritti e doveri, poter assistersi nel momento della difficoltà, essere considerati il parente più prossimo nel momento delle grandi decisioni. E se l’amore reciproco e i bisogni come coppia sono uguali, non si capisce davvero per quale motivo due cittadini omosessuali debbano essere diversi davanti alla legge.
Se questa è l’Europa, in Italia, in particolare con questo governo, siamo purtroppo ancora drammaticamente più indietro: il tema qui non è certamente quello di scegliere tra matri- monio e altre forme di unione. Qui da noi l’omofobia – non solo la violenza dettata dall’odio omofobico, ma anche la presunzione e l’espressione pubblica dell’inferiorità morale e giuridica delle persone omosessuali – non è colpita da nessuno stigma sociale. È la regola, non l’eccezione. Al momento nessun leader politico di primo piano, di nessuno schieramento, ha mai avuto il coraggio civile di pronunciare parole limpide come quelle del Senatore Grisanti. E questo comporta una diminuzione dello status di cittadinanza delle persone omosessuali in ogni sfera della loro vita civile: in una democrazia o si è uguali o non lo si è, tertium non datur. E noi omosessuali uguali non siamo, questo è il dato di fatto.
P.S. Con l’ironia che le è propria, la Storia ha voluto che proprio mentre a New York il Governatore Cuomo firmava la legge sul matrimonio, in Italia si sposasse il nostro Ministro per le Pari Opportunità. Le faccio i miei auguri più affettuosi. E ad entrambi auguro che un giorno, speriamo non troppo lontano, lei possa restituirmi il pensiero.❖
2 risposte a “L’orologio della storia si è fermato ai Di.Co.”
[…] hanno dichiarato al momento di prendere quella decisione? Che non abbia riflettuto e meditato su quelle parole? Io non ci posso […]
[…] http://www.ivanscalfarotto.it/2011/06/28/lorologio-della-storia-si-e-fermato-ai-di-co/ […]