Una vecchia foto di un viaggio lontano, era l’estate del 1998. Ero a New York con Erminio, l’autore della foto e mio compagno di allora, dopo pochi mesi sarei stato assunto a lavorare per una banca newyorkese fino al midollo, fino al suo stesso nome: Citibank, la banca fondata quasi duecento anni prima come “The New York City Bank”. L’undici settembre del 2011 ero in ufficio, il Direttore Generale era in Ungheria, io dovevo partire per Roma. Erminio mi telefonò per dirmi di quello che stava succedendo, in ufficio la tensione fu subito altissima: molti dei miei colleghi del personale a New York erano al 7 World Trade Centre, il palazzo che crollò poche ore dopo le torri. Pensai a tutti gli amici che potevano per qualche motivo essere da quelle parti: Alicia, per esempio, dove era Alicia? Nel taxi col quale andavo a Linate, con il collega col quale dovevo partire, sentimmo dello schianto sul Pentagono. Fu sugli schermi di Linate che vidi crollare le torri, una dopo l’altra. D’accordo con Londra decidemmo di mandare tutti i colleghi a casa, la polizia ci avvisò che Citi era considerata un obiettivo sensibile. E’ stata l’unica volta nella mia vita che all’imbarco di un volo ho detto alla hostess di terra “Non parto”. Sono tornato in ufficio, con i pochissimi colleghi rimasti siamo saliti al piano della Direzione Generale e abbiamo acceso la televisione. Dal giorno dopo ho cominciato a rispondere alle mille telefonate di colleghi di altre banche, consulenti e gente varia che chiamavano noi di Citi per fare in qualche modo le condoglianze a qualcosa che fosse anche lontanamente americano. La nostra vita era cambiata. Dell’undici settembre ho sentito tante cose, il mio amico Mike che stava al 7 WTC e che poi è entrato nel mio team a Londra e che lasciò tutto quello che aveva nei cassetti della scrivania che si polverizzò poche ore dopo. O quella collega italo-argentina che avevamo mandato in missione a NY e che stava al Millenium Hotel, dall’altra parte della strada. Mi venne a trovare qualche mese dopo. Aveva avuto problemi a lasciare gli Stati Uniti perché aveva lasciato il passaporto in camera e non era mai più potuta tornare a prenderlo: il grattacielo era troppo vicino alle torri per poter entrarci, anche se era rimasto in piedi. “Voglio tornare in Sud America”, mi disse quando in quel colloquio. “Avevo dei piani per la mia vita e per la mia carriera, ma dopo quel giorno le mie priorità sono cambiate. Devo tornare vicino, devo stare più vicino alle persone che amo”. Qualche anno dopo, lavoravo già a Londra, andai a trovare il mio capo negli uffici di Salomon Smith Barney a Soho. Nel suo ufficio c’era un piccolo televisore, sempre acceso. Scherzando le chiesi perché tenesse lì quel piccolo televisore muto. Diane non disse nulla, si limitò a guardare dalla finestra, verso sud.
Una risposta a “9/11”
Gran post, Ivan. L’11 settembre 2001 io lavoravo a Roma come giornalista in uno stage per Internazionale. Quando si capì che il primo aereo non era un piccolo velivolo né un incidente, l’intera redazione si fermò davanti alla tv. Dopo il secondo aereo, io chiamai mio papà, era da mia sorella, gli dissi che poteva essere l’inizio di un nuovo tipo di guerra mondiale e che se non mi sbagliavo, lo volevo almeno salutare per telefono. Per fortuna ero stato troppo tragico nelle mie previsioni. Minuti dopo il secondo aereo, il direttore annullò le ferie di tutti coloro che erano già partiti e facemmo un numero speciale nel giro di pochissimi giorni. Tornando a casa quella sera, Roma era tipo sotto coprifuoco, con macchine abbandonate in mezzo alla strada su viale regina margherita e i guidatori dentro i bar a guardare le immagini dalla tv… Ho diverse foto dentro alle Torri nel 1985 e con lo sfondo delle Torri negli anni successivi. Quando le riguardo, penso sempre a quanto erano imponenti quelle due strutture, e a come sia stato possibile farle sbriciolare come grissini.