Enrico Ciccarelli per Gabriele.
L’arcobaleno semovente (per il mio amico Gabriele)
Oggi ho avuto una giornata piena di cose: lavoro intenso, conoscenza di persone interessanti, palpiti di emozione e preoccupazione, doni che valgono molto e parole che valgono ancora di più, risate, affanni, contrarietà, indignazioni… Ho preso in mezz’ora più acqua in testa che in tutta l’estate al mare, ho visto nuvole di panna svettare in una macchia d’azzurro nel cielo grigio, e uno splendido arcobaleno che si stagliava come un nastro sopra i campi roridi di pioggia.
Come tutti ho dato in questa giornata molta importanza a cose e persone che non ne meritavano e guardato con superficialità a cose che invece avrebbero dovuto essere considerate molto di più. Una giornata come tante, insomma, che sarebbe fluita nel vasto mortaio in cui sono pestati e trasformati tutti i ricordi se poi Gabriele Scalfarotto -il mio presidente di Agedo, il mio esempio di coraggio civile, il mio amico- non mi avesse fatto ascoltare il suo ultimo intervento in ordine di tempo, consistito in un colpo di pistola alla tempia nella sua casa di mare. Questo ha impedito ed impedisce a questa giornata di andare in archivio, nella placida categoria dello ieri. La tiene, per così dire, frammentata e divisa come i pezzi di un mosaico scomposto.
Naturalmente non sono immune alla domanda che tante persone perbene, intelligenti e sensibili si pongono in queste ore: perché? Perché, Gabriele? Cosa è successo? È stata la tua volontà di non rassegnarti a morire un poco ogni giorno, come tutti? Ti ha ghermito la disperazione, non hai retto a una brutta notizia, eri tentato dall’idea di farti un giro per vedere se è proprio vero che da quei posti non si ritorna? Non lo so. So che mi diresti che sono domande una più stupida dell’altra, visto che a questo perché -piaccia o no- non c’è nessuna risposta. O ce ne sono troppe, il che è lo stesso.
Siccome sei stato amico e fratello di massoneria di mio padre e mio zio, e partecipavi della stessa laica speranza, della stessa gentile e bonaria ironia, della stessa profondissima generosità, resterò convinto che il tuo sia stato l’ennesimo gesto di passione, l’atto (forse rabbioso, forse sereno e lucido, ma non credo disperato, di sicuro non da sconfitto) di un uomo innamorato della vita in ogni sua forma ed aspetto. Suona strano dirlo oggi, vero? Eppure i grandi amori sono così, come sai: pronti a deviar cammino, a trasformarsi, persino a mutarsi nel loro contrario, almeno in apparenza. Ma pur sempre sostenuti da indomita energia, ricerca ansiosa, gioia inesprimibile. Passione appunto; che a volte ti trascina nella letizia e a volte ti fustiga e ti appende a una croce.
Nei prossimi giorni, quando questo giorno frantumato si sarà ricomposto in archivio, ci saranno gli epicedi, gli elogi funebri, le commemorazioni e quant’altro. Te li sei meritati uno per uno, non lo dico per compiacerti o far piacere al tuo ego. Ti sei battuto per gli altri molto più che per te stesso, ti sei dato senza risparmio, ti sei dannato l’anima. Se c’è uno che li merita, i rimpianti e gli applausi dei vivi, quello sei tu.
Dovrebbe piuttosto esserti risparmiato -ma temo non lo sarà- il tartufesco elogio conformista di chi non aveva niente a che fare con te e con ciò in cui credevi, l’ipocrita omaggio di una città che per propria colpa e sventura si volta dall’altra parte, bofonchia le sue stupidità, considera dei gran rompicoglioni quelli che hanno un ideale e lo difendono. Nessuno li conosce meglio di te, che li hai avversati, derisi e disprezzati; quelli che “vabbé, ma fare una battuta non vuol mica dire che si è omofobi”, quelli che “i veri discriminati siamo noi etero”, quelli che “ma questi gay non vorranno mica pretendere di essere una famiglia vera”?
Sarebbe bello che per questa avvilente congrega restassi da morto il tizzone d’inferno che pensavano tu fossi quando eri vivo. Sarebbe bello se non fossimo condannati -come siamo- a rimpiangerti a lungo, se non fossimo costretti -come siamo- a fare tante cose ancora nel tuo nome, anche se non più a tuo nome. Ma si sa, gli usi son questi: si va alla messa cantata per le vittime al mattino e ci si siede a cena con gli assassini la sera. Per tua fortuna, per mia sfortuna, questo non ti appartiene più.
Dove sarai adesso? Altra domanda di totale idiozia, lo so. Se sei da qualche parte, però, starai sicuramente chiedendo chiarimenti sull’organizzazione, non senza avanzare qualche critica o perplessità, e starai organizzando iniziative, mostre, dibattiti, senza trascurare dettagliati verbali di resoconto da inviare ad horas a tutti gli interessati. So che non avresti voluto lasciarci soli proprio in un momento in cui la pioggia, il freddo e il grigiore fanno sentire più acuta la mancanza dell’arcobaleno semovente che sei sempre stato.
Ho pianto tutte le mie lacrime per te, naturalmente, e sono certo di non essere stato né il solo né uno dei pochi; ma ciò non toglie che il tuo segno distintivo sia sempre stato, sia e resti per sempre il sorriso. Hai lasciato i posti in cui sei stato un po’ più puliti di come li hai trovati: è più di quanto si possa dire di tanti. Grazie.
Una risposta a “L’arcobaleno semovente”
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