Il suicidio del ragazzo romano ci racconta che c’è ancora tanto, troppo, da fare sul piano dell’educazione, della cultura, della mentalità. Siamo ancora lontanissimi dal comprendere che un paese in cui ci si toglie la vita per la paura di non essere compresi e amati è un paese nel quale vale meno la pena vivere non solo per le vittime, ma per tutti.
Ciascuno porta, individualmente, una quota parte di responsabilità: etero o gay, non fa nessuna differenza. Il paese appartiene a tutti, e tutti dovremmo avere l’interesse e il desiderio di costruire un’Italia più rispettosa e più inclusiva. Perché in un paese più civile e più accogliente vivremmo meglio tutti, indipendentemente dal nostro orientamento sessuale (e dall’etnia, religione, nazionalità o dalle nostre abilità).
La legge deve certamente sancire sanzioni penali per chi pratica l’odio, la violenza e la discriminazione e speriamo che il Senato approvi al più presto la legge, anche migliorandola. Ma la norma penale non può esaurire il problema: né quello dell’omofobia, né quello della xenofobia, né quello della violenza contro le donne. Mi chiedo, per esempio, se – anche nel caso di Roma – uccida di più l’ostilità del mondo esterno o l’indifferenza della propria famiglia, o le due cose insieme.
Se non ci convinceremo collettivamente – politica, media, scuola, famiglie – che il rispetto reciproco e l’allargamento dei diritti non sono solo un modo per sdoganare un “politically correct” che in Italia si è ripudiato senza averlo mai effettivamente adottato, non ne verremo fuori mai e ci sarà sempre qualcuno che pagherà, come a Roma, anche con la vita.