Si è scritto molto, e penso lo si farà anche in seguito, sul comportamento dei media italiani nella vicenda dell’arresto del presunto assassino di Yara Gambirasio. Io ne vorrei sottolineare un aspetto, che rischia di perdersi nell’affollamento delle molte cose irragionevoli e feroci compiute in questi giorni: è quello della concezione della genitorialità, che è a sua volta illuminante sull’idea di “famiglia” che continua a vivere sottotraccia, nel luogo oscuro dell’anima del Paese, contro l’evoluzione del costume, delle leggi e della logica.
È inquietante, ad esempio, che a quarant’anni dalla riforma del diritto di famiglia, organi di informazione in cui lavorano professionisti della parola, possano ancora usare il termine “figlio illegittimo”. Prima ancora che la legge equiparasse i figli naturali a quelli nati nell’ambito del matrimonio, ci aveva pensato Eduardo De Filippo, per bocca di Filomena Marturano, nel 1946 (!). “I figli sono figli”, diceva l’indimenticabile personaggio; figli e basta.
Definire la persona il cui Dna ha permesso agli inquirenti (forse e non del tutto) di ricostruire il puzzle di questo terribile omicidio, come “vero padre” di Bossetti è in modo ancora più evidente frutto di un’ancestrale e barbara idea del primato del sangue, l’idea che la genitorialità non sia – come è – prodotto sociale e culturale, conquista di civiltà sommamente umana, ma accidente genetico, marchiatura cromosomica.
Lasciamo stare la non secondaria circostanza che un “padre putativo” sia tra le figure più amate della nostra tradizione religiosa; ma è ragionevole credere che quarantacinque anni o giù di lì di sacrifici, attenzioni cure profuse da Giovanni Bossetti per Massimo Giuseppe e Laura Letizia possano essere cancellati da una provetta di laboratorio. Il “vero padre” è lui, non certo un passeggero e clandestino inseminatore.
Perché la genitorialità, la famiglia, lo scambievole e durevole aiuto che gli esseri umani si danno gli uni con gli altri sono prodotti dell’amore e della solidarietà, non del sangue o di altri fluidi. È nell’acquisizione progressiva di questa coscienza che si comprende il passaggio dal “matrimonio riparatore” e dal “delitto d’onore” al matrimonio ugualitario e alle unioni civili.
È triste constatare che per molti giornalisti e per molti giornali le lancette di quell’orologio possano essere riportate indietro di mezzo secolo, senza nemmeno la grazia nazional popolare dei film di Raffaello Matarazzo con Yvonne Sanson e Amedeo Nazzari.
Triste, ma utile; perché ricorda a tutti noi quanto sia necessario non dare per scontate le conquiste che abbiamo raggiunto; e quanto lavoro di lunga lena sia ancora necessario per renderle irreversibili.
3 risposte a “Dell’amore e del sangue”
Standing ovation.
Onorevole Scalfarotto,
Io la capisco quando Lei sostiene che “la genitorialita’ sia prodotto sociale e culturale, una conquista di civilta’ sommamamente umana” e non solo “un banale accidente genetico, una marchiatura cromosomica”.
Ma Lei ragiona dal punto di vista omosessuale perche’ vive una condizione, l’omosessualita’, appunto, che non le permette di marchiare geneticamente, oltre che culturalmente e socialmente il frutto delle sue relazioni sessuali.
E chiaro, dunque, che Lei ci tenga particolarmente ad allargare il piu’ possibile il concetto di genitorialita’ anche nell’ambito che riguarda i suoi interessi personali e della categoria cui Lei appartiene.
Anche l’eterossesuale, che rappresenta una categoria cui Lei non appartiene, puo’ pero’ trovarsi impedito, come lei, da fattori naturali che non dipendono dalla sua volonta’, nella “marchiatura cromosomica” dei suoi discendenti. E trova alternative. Rimpiange di non averli potuti “marchiare”, ma, a differenza di Lei e della categoria cui Lei appartiene, non credo sia disposto a considerare questa “cromosomica marchiatura” il frutto di un’ancestrale e barbara idea del primato del sangue.
Puo’ certamente solidarizzare con Lei, vittima innocente di questo naturalissimo handicap che le impedisce di materializzare i suoi rapporti omosessuali, ma non al punto da definire “barbaro e ancestrale” il metodo cosiddetto naturale che permette alle persone senza questo handicap di procreare eterosessualmente.
La Natura, dunque,, nei suoi misteriosi disegni, ha privato non solo Lei e la categoria cui Lei appartiene di marchiare geneticamente il frutto delle proprie relazioni omosessuali, ma anche (e abbastanza spesso) la categoria degli eterosessuali che, come lei, non hanno la possibilita’ di marchiare in modo che Lei definisce ” barbaro e ancestrale” il frutto delle loro relazioni eterossesuali.
La societa’ sommamente umana ha trovato per gli eterosessuali ampi spazi, non ostante il loro handicap, perche’ essi possano manifestare il loro istinto genitoriale che non poteva,, priprio a causa di un handicap naturale, com’e’ successo a lei e alla categoria cui appartiene, materializzarsi in modo, come dice lei, “barbaramente e ancestralmente” consanguineo.
Sono certo che l’evoluzione della societa’ sommamente umana trovera’ spazi nei quali anche Lei e la categoria cui Lei appartiene potranno esprimere il loro istinto genitoriale il quale, pero’, glielo ricordo rispettosamente, in sostanza consiste nell’istinto della riproduzione e della salvaguardia della specie. Un istinto, se mi permette, che non ha nulla di barbaro e ancestrale perche’ e l’istinto che ha permesso anche a lei di venire al mondo. Insieme a miliardi di altri individui che non trovano nulla di barbaro e ancestrale nel sentirsi genitori e figli “naturali”.
Distinti saluti.
Isabella Sozio: non c’entra essere omosessuali o avere handicap (quali?!?), c’entra che i genitori (e la famiglia in generale, inclusi fratelli/sorelle, zii, cugini…) sono quelli con cui sei cresciuto/a e non necessariamente quelli che ti hanno generato. Fine. Basta chiederlo a qualsiasi persona adottata.
Certo, per la maggior parte delle persone le due cose coincidono, ma ciò non vuol dire che il discorso generale rimanga sbagliato, o sia dovuto a qualsivoglia aberrazione o norma della natura.
(Per amore di discussione, ignoriamo poi il discorso più generale che, se l’uomo funzionasse secondo natura, non saremmo qui a parlare su internet, perché allora avremmo già finito.)