“Canguro”, la parola della settimana, non è solo uno strumento parlamentare anti-filibustering. E’ anche un esempio paradigmatico del “lost in translation”, delle difficoltà di comunicazione fra popoli diversi. Quando i primi navigatori occidentali giunti in Oceania chiesero agli aborigeni come si chiamasse quello strano marsupiale, essi risposero “Kan ga ru”, che nella loro lingua significa “non capisco cosa dici”. Ma siccome i marinai di Sua Maestà Britannica non potevano nemmeno pensare che qualcuno non capisse l’inglese (è sempre stato così, evidentemente) l’animale diventò ipso facto un “kangaroo”, un canguro. Ebbene, c’è una chiara analogia tra lo spettacolo deprimente che si è svolto a Palazzo Madama nei giorni scorsi e quel problematico rapporto fra James Cook e gli indigeni d’Oceania. Non un confronto fra posizioni diverse, ma un completo antipodo concettuale, sintattico, verbale.
Che questo accada con i parlamentari leghisti e pentastellati sarà anche triste, ma ha un suo senso. Si tratta di forze politiche che, senza mostrare alcuna vergogna, oggi fanno le barricate per lasciare intatta la Costituzione avendo l’una e/o l’altra nel tempo manifestato una dichiarata avversione per l’Unione Europea, lo Stato democratico, le istituzioni repubblicane, la bandiera nazionale e la democrazia rappresentativa. Ma trovo particolarmente triste che una forza come Sinistra, Ecologia e Libertà si sia assunta il ruolo di mosca cocchiera, facendo da ferro di lancia per partiti politici che non hanno davvero nulla in comune con la sua storia, la sua identità, i suoi valori. È questo, non un legittimo dissenso di merito, che ha rischiato di scavare un solco irreparabile fra noi del Pd e i dirigenti del partito di Nichi Vendola.
Perché avere posizioni diverse sul Governo nazionale e sulle larghe intese non impedisce di governare insieme in molte Regioni e Comuni d’Italia. Vendola stesso è stato apprezzato e legittimo competitor nelle primarie di coaliizione del 2012, conclusesi con la vittoria di Bersani, e buona parte dei parlamentari sia di Sel che del Pd lo è grazie all’accordo di maggioranza e al relativo premio conquistato grazie all’alleanza tra i due partiti. Nessuno ha contestato a Sel il diritto di rifiutare le larghe intese e di non accordare il proprio voto né al Governo Letta né al Governo Renzi; nessuno impone a Sel di farsi piacere la riforma costituizionale, tanto meno le nega il diritto di battersi con vigore contro un Italicum che, essendo una legge elettorale maggioritaria, è comprensibilmente malvista da tutte le forze politiche minori.
Ma si passa il segno quando si accredita l’idea che il Partito democratico si stia rendendo protagonista di una manovra autoritaria o quando si fanno esercizi di dietrologia d’accatto come quella sui “patti inconfessabili” fra Renzi e Berlusconi (che sarebbero così scemi da stipulare un patto occulto nella sede del Partito Democratico in un incontro annunciato a tutti i media del Paese). Si passa il segno quando si partecipa ad indegne gazzarre che vogliono trascinare nella mischia politica il presidente della Repubblica (per giunta rivolgendogli la paradossale accusa di esserne parte). È nelle cose che, in presenza di questo atteggiamento sia stata messa a rischio l’idea stessa di poter d’ora innanzi creare coalizioni politiche con Sel.
La cosa stupefacente è che questa ovvietà sia stata espressa per primo da un dirigente del Pd, Luca Lotti, e non da quegli esponenti di Sel che per settimane in Senato hanno urlato (e non è un espediente retorico) all’autoritarismo di Renzi e che, invece che trarre le ovvie conseguenze da quei giudizi politici, hanno qualificato la sola prospettazione della fine della nostra collaborazione politica come come un atto di intimidazione. Personalmente, se fossi convinto che un partito ha una linea eversiva o criptogolpista, mi guarderei bene dall’allearmi con esso anche in un assemblea di condominio. La verità è che Sel non è in lite con il Pd: è in lite con se stessa, con le ragioni che ne hanno determinato la nascita, con quel coraggioso rifiuto del massimalismo senza speranza che Vendola compì anni fa e dal quale ora rischia di essere risucchiato.