Lucia Annunziata, sull’Huffington Post, formula una serie di rilievi critici su Matteo Renzi, annotando che i fan del premier fanno a gara con i grillini per violenza delle reazioni e contumelie verso i detrattori del loro idolo. Siccome sono da quel dì un sostenitore di Matteo Renzi e non mi riconosco in questo identikit, cercherò di spiegare, senza alcun accento fideistico, quali ragioni mi hanno spinto e mi spingono tuttora a sostenere Renzi con la massima convinzione.
Sia chiaro: le critiche dell’Annunziata, come quelle che non lesina Eugenio Scalfari e quelle, spesso parossistiche, del Giornale, di Libero e del Fatto, sono un normale esercizio di democrazia. Dopo la lunga notte dell’informazione militante pro o contro Silvio Berlusconi, determinata anche da un abnorme e irrisolto conflitto di interessi, era tempo che questo Paese recuperasse un fisiologico rapporto controversiale tra politica e informazione.
Non penso quindi che si debba gridare al vilipendio o alla lesa maestà per articoli critici, anche quando animati, come mi sembra in questo caso, da aperta ostilità. Mi pare piuttosto che l’informazione, al pari degli altri poteri arbitrali delle società complesse, ha bisogno dell’uniformità di giudizio. Se si dice che Renzi non riuscirà mai a far indicare Federica Mogherini come Lady Pesc, è abbastanza stucchevole leggere, il giorno dopo la sua designazione, che quella carica è inutile e ce l’hanno data per turlupinarci.
Noi “renziani” ci fidiamo nel premier come figura politica durevole, in grado di costruire una leaderhip non effimera, su basi che non sono fideistiche o idolatriche: noi registriamo che, dopo un ventennio di commissariamento della politica e di sua delega a improbabili costruttori di miracoli o a degnissimi tecnici titolari di una qualche provvidenziale scienza infusa, c’è alla guida del Paese e del suo maggior partito un “politico”, legittimato da un consenso popolare significativo, che fa quel che dice e dice quello che fa.
L’avvento di una nuova leva di dirigenti, ministri, europarlamentari; una riforma della Costituzione (per parlare di temi che mi riguardano) fondata su basi di largo consenso e che non teme il vaglio dei cittadini; il primo Governo che realizza la parità di genere e mette in mani femminili dicasteri che un tempo apparivano naturaliter maschili; la prima riduzione del carico fiscale per i lavoratori dipendenti e per le imprese dal tempo dei tempi; la prima misura anticiclica presa dall’inizio della crisi; un generale atteggiamento di sfida ai tabù e ai feticci che hanno paralizzato l’Italia.
In questo elenco sommario ed incompleto non ci sono, ad esempio, i provvedimenti che tutti attendiamo in materia di diritti; non c’è il coraggioso passo, già compiuto, per l’ingresso del Partito Democratico nel Partito Socialista Europeo, e così via. Nel cammino del premier e del nostro Governo ci sono atti discutibili, timidezze, esagerazioni? Non tocca a me, per ovvie ragioni, confermarlo o smentirlo. Ma sono remore, dubbi e obiezioni che riguardano comunque un cammino intrapreso.
Se siamo così risoluti nel difendere questo cammino (e certo non è un buon modo per difenderlo dare in escandescenze o essere intolleranti nei confronti di chi la pensa diversamente) se ci permettiamo di non rientrare nei ranghi di fronte ai rabbuffi, anche autorevoli, che arrivano da questo o da quel titolare di (vere o presunte) esperienza e competenza, è perché riteniamo che in gioco ci sia il futuro della politica in Italia e a fortiori dell’Italia stessa. Certo non per una fideistica adesione a una leadership carismatica.
Del resto Renzi, al contrario delle dichiarazioni di D’Alema ieri alla Festa dell’Unità, non ha certamente dato spazio soltanto a suoi “fiduciari”. Segno che certe critiche al premier sembrano semplicemente la dimostrazione dell’incapacità di farsi una ragione della sua popolarità e del consenso che riscuote. Nel 2012 Renzi prese il 40% dei voti avendo contro di sé l’intero partito, salvo uno sparuto manipolo di coraggiosi. Da allora ha fatto tutto il contrario che rinchiudersi in una torre d’avorio con i suoi fedelissimi, e ha sempre cercato di allargare la gestione del partito e il gruppo dei suoi sostenitori. Altro che “fiduciari”.
Restiamo ai fatti. Dall’elezione di Renzi alla segreteria del PD, la presidenza del partito è andata prima a Cuperlo (il suo principale avversario durante le assise congressuali) e poi a Orfini, certo non un suo sostenitore. La segreteria ha avuto un importante innesto “civatiano” (Taddei) e nessun posto è stato accettato, nonostante le offerte, da Gianni Cuperlo, altrimenti anche quel gruppo sarebbe stato rappresentato al vertice del partito: D’Alema, che ha di solito una memoria così acuta, sta chiaramente perdendo colpi. I due capigruppo alla Camera e al Senato non sono stati avvicendati, e i direttivi dei gruppi sono rimasti gli stessi eletti con la segreteria Bersani.
Tra i ministri soltanto Maria Elena Boschi è immediatamente collegabile a chi – nel 2012 – sostenne Renzi per la premiership, e tra i sottosegretari i “renziani della prima ora” si contano sulle dita di una mano. A Strasburgo, le cariche di maggior rilievo sono andate a Gianni Pittella, David Sassoli e Patrizia Toia: nessuno dei tre appoggiò Renzi nel 2012. Pochi giorni fa, unilateralmente, Renzi ha addirittura battezzato la ricandidatura di Enrico Rossi a presidente della Toscana. Non riesco a pensare a D’Alema o a Bersani che concedono la Presidenza della Puglia o dell’Emilia Romagna al proprio principale avversario, ma dev’essere chiaramente un mio limite.
Con Matteo Renzi abbiamo finalmente convinto la maggioranza dei nostri concittadini che la sinistra può governare l’Italia. Capisco che possa fare specie a chi ha cantato e diretto la sinistra senza esserci mai riuscito. Noi continuiamo nel frattempo a lavorare per tirare il paese fuori dalle secche e restituirlo al ruolo di avanguardia in Europa che senza alcun dubbio gli compete. I commentatori e i malpancisti ci perdoneranno se lo facciamo con la responsabilità e l’orgoglio di chi ha avuto un mandato elettorale formidabile come quello del 25 maggio.