Il mio post per L’Huffington Post
Era il 2001 quando in ufficio ricevetti una mail dagli Stati Uniti. Ero il Direttore del Personale di una grande banca americana: circa 500 dipendenti in Italia, ma 200 mila sparsi in più di 100 paesi nei 5 continenti. La Banca, mi avvertiva il messaggio di posta elettronica, aveva deciso di creare un grande centro servizi a supporto di tutte le attività commerciali in Europa, con la previsione di assumere molte centinaia di persone. Tutte le direzioni del personale dei singoli paesi erano quindi invitate a rispondere in poche ore a un questionario per aiutare l’azienda a stabilire dove fosse più conveniente e opportuno stabilire questo nuovo insediamento. La prima domanda – per le chance di Milano e dell’Italia – fu purtroppo anche l’ultima: mi si chiedeva di spiegare in quanto tempo e con quali costi la Banca avrebbe potuto, in caso di necessità, dismettere il sito produttivo. Io non fui in grado di rispondere: le norme italiane non mi consentivano di dare agli americani la sicurezza sui costi e sui tempi necessari, in caso di emergenza, a terminare tutti i contratti e chiudere. Così il centro servizi fu creato, non a Varsavia o a Bratislava, ma a Barcellona, dove – a distanza di tredici anni – la necessità di chiudere non si è mai presentata. Così, oggi, più di seicento persone hanno un lavoro sicuro e ben retribuito in Catalogna e non in Lombardia.
Matteo Renzi ha ragione: il mercato del lavoro non va semplicemente rivisto: va rivoluzionato. Non per capriccio, ma per il semplice motivo che le norme in vigore oggi raccontano di un mondo che non c’è più: il mondo nel quale era possibile e lecito aspettarsi di entrare a vent’anni in un’azienda e uscirne trentacinque anni dopo, con in tasca la liquidazione e con la prospettiva di una pensione per tutto il resto della vita. Un diritto del lavoro di cui si legge nei testi universitari, ma di cui non si conservano molte tracce nel mondo reale.
Il giorno in cui entrai per la prima volta nel mondo del lavoro era per prendere servizio alla Banca Commerciale Italiana, la gloriosa Comit di Raffaele Mattioli. Esisteva da cento anni e io pensavo che sarebbe rimasta lì nei secoli dei secoli. Credevo in totale buona fede che sarebbe sopravvissuta a me e alle generazioni dopo di me, con il suo palazzone in Piazza della Scala a Milano, così austero e solenne che i turisti giapponesi pensano di fotografare il tempio della lirica e invece fotografano la Banca. Era il 1991, oggi è il 2014, e la Comit non esiste più da molti anni. E se la Banca Commerciale ha deluso le mie aspettative, pensate alla serenità d’animo con cui dovevano affrontare la stessa esperienza i miei colleghi che negli stessi anni entravano al Banco di Napoli, che stava lì da più di quattro secoli: chi avrebbe potuto pensare che sarebbe da lì a poco sparito e inglobato in una nuova e moderna entità insieme ad aziende che per tempo immemorabile erano state sue concorrenti?
Il fatto è che il mondo è cambiato. È cambiato il mondo della produzione e dei consumi, sono cambiati i cicli di vita dei prodotti e delle aziende che li inventano, li costruiscono e li vendono. Guardate un attimo il telefonino che avete in tasca (probabilmente coreano o californiano) e ricordate il telefonino (probabilmente finlandese) che avevate con voi dieci anni fa. È chiaro che Nokia, perdendo quote di mercato a velocità vertiginosa, si è trovata davanti all’esigenza di ristrutturare la sua forza lavoro e i suoi lavoratori hanno dovuto ricollocarsi sul mercato passando ad altre aziende (magari proprio i concorrenti Apple o Samsung), andando magari a lavorare in altri paesi o forse anche iniziando percorsi professionali totalmente nuovi.
Il problema della tutela del lavoro oggi sta proprio in questo tipo di passaggio, dinamico, da un lavoro all’altro e non può consistere nel forzare il mercato del lavoro in un contesto statico che semplicemente non esiste più. Una persona che entrasse oggi nel mondo del lavoro avrebbe la realistica aspettativa di cambiare almeno 7 posti di lavoro nell’arco della sua vita lavorativa. Questo è il mondo di oggi, e non riconoscerlo, come fa il sindacato, significa semplicemente ignorare un dato di realtà. Il nuovo diritto del lavoro dovrà quindi facilitare la creazione di nuovi posti di lavoro, incentivando l’attrazione di nuovi investimenti e non creando ostacoli a occasioni come quelle del Centro Servizi spagnolo del mio ex datore di lavoro. Dovrà riconoscere protezioni in capo ai lavoratori non ingabbiandoli in aziende magari decotte, trasformate in enti erogatori di sussidi pubblici, ma favorendo la trasmigrazione e la promozione del lavoro verso settori produttivi più qualificati e innovativi. Questo può accadere solo sostenendo il reddito nei periodi di passaggio e assicurando alle persone una formazione professionale che sia adeguata e coerente con l’offerta di lavoro presente o pianificata in un dato momento e in un dato territorio.
E, soprattutto, il nuovo diritto del lavoro non dovrà più essere iniquo come quello che esiste oggi. È incomprensibile come il sindacato possa proteggere un sistema dove le protezioni non sono universali, ma coprono solo una parte, che peraltro diventa sempre più piccola, dei lavoratori. Dove diritti basilari – umani, direi – come maternità, ferie, malattia e sostegno al reddito sono riconosciuti a taluni e non ad altri sulla base di criteri totalmente casuali. Il sindacato sembra farsi portavoce non della generalità dei lavoratori, ma soltanto dei propri iscritti, che poi alla fine sono soprattutto lavoratori “garantiti” e, in misura assolutamente maggioritaria, pensionati: persone che non lavorano più. È un approccio ispirato a una logica totalmente corporativa, che ha prodotto un grande scollamento tra sindacati, lavoro e opinione pubblica. Chi abbia visto il bellissimo film di Paolo Virzì “Tutta la vita davanti” ricorderà benissimo lo struggente personaggio del sindacalista (interpretato da Valerio Mastrandrea) snobbato da tutte le ragazze operatrici del call center, che non avevano proprio idea di cosa servisse il sindacato e di cosa mai facesse un dirigente sindacale.
Dotarci di un diritto del lavoro che parli di questo secolo è una necessità non più procrastinabile e dall’esito di questa riforma capiremo quanto davvero siamo in grado, come governo, di cambiare le cose in questo paese, secondo quanto ci è stato chiesto dagli elettori del 25 maggio. La riforma del lavoro, in un certo senso, è la madre di tutte le battaglie, il luogo dove si dispiegheranno nella loro interezza tutte le difese di chi difende lo statu quo che ha prodotto i risultati fallimentari che sono davanti ai nostri occhi.
La locomotiva tedesca è ripartita da lì, con una grande riforma voluta non da un pericoloso reazionario, ma dal socialdemocratico Schröder. Se vogliamo restituire all’Italia il ruolo che le compete, dobbiamo essere in grado di cambiare: è da qui che si misurerà la capacità del partito democratico e del governo di fare la differenza che l’Italia e il mondo si aspettano da noi.