Ieri Jacopo Iacoboni, sul sito della Stampa, ha scritto un pezzo in difesa delle parole di Landini (“Renzi non ha il consenso delle persone oneste”), sostenendo che fossero parole dette più “con imperizia retorica che con convinzione” e che è Renzi, piuttosto, a dover essere stigmatizzato poiché dice cose durissime sui suoi interlocutori. Ho scritto ieri a Jacopo su Twitter che la sua difesa non mi ha convinto. Non perché non riconosca che il dibattito verbale sia salito di toni un po’ dappertutto, ma perché spostare il focus dalla parole di Landini a quelle di Renzi – oltre a essere un modo come un altro per buttare la palla in tribuna – ci fa perdere una grande occasione di analisi politica.
Non credo proprio, infatti, che Landini abbia detto quel che ha detto senza convinzione e per un'”imperizia” che francamente si fa molta fatica ad attribuirgli, come concorderà chiunque (tutti in Italia, centenari e lattanti inclusi) lo abbia visto almeno un paio di volte in televisione. La mia opinione è che Landini abbia detto in modo piano e inequivoco quello che pensa nel modo più intimo e profondo.
Che poi è quello che una certa parte della sinistra italiana, della quale sia ben chiaro mi sento parte integrante, pensa da sempre: di essere cioè la parte moralmente migliore del Paese. Gli “onesti” di cui parla Landini sono i pensionati e i lavoratori dipendenti, quelli che hanno la ritenuta alla fonte e che quindi pagano inevitabilmente tutte le tasse. Costoro – dice Landini, su dati comunque tutti da dimostrare – non amano Renzi, che invece fa presa su una parte del Paese di cui diffido. Mediamente si tratta infatti di sfruttatori di lavoro altrui, di evasori di tasse e di utilizzatori di condoni edilizi.
Non ho difficoltà a fare un ulteriore coming out e dire che simili pensieri hanno attraversato anche la mia testa, nel corso degli anni. In particolare negli anni del berlusconismo imperante, quando non capivo per quale motivo una così grande massa di italiani si affidasse consapevolmente, e affidasse il Paese, a un personaggio equivoco e borderline come il Cavaliere.
C’è però un grave errore metodologico in questo modo di ragionare: quello di allargare individualmente a tutti gli elettori di Berlusconi (milioni, milioni e milioni di italiani) i difetti percepiti in Berlusconi. E di interpretare dunque nella vita, senza accorgerci della tragica comicità intrinseca al nostro modo di agire, la monumentale battuta di Corrado Guzzanti: “Se i partiti non rappresentano più gli elettori, cambiamoli questi benedetti elettori!”
Questa è la differenza tra la sinistra del 25% e quella del 41%: che la seconda ha smesso di condannare eticamente le persone esterne al proprio bacino elettorale tradizionale e ha cominciato a confrontarsi con esse, a considerarle potenziali elettori. Chiedendosi se la fiducia accordata a Berlusconi non fosse forse radicata nell’inadeguatezza dei nostri programmi e nel nostro modo di procedere, invece che nella corruzione morale di quella parte dell’elettorato.
Questo cambiamento è la ragione che ci consente oggi anche di dialogare sulle riforme con Berlusconi – in quanto rappresentante di quei milioni di concittadini – tenendo conto che i limiti di Silvio Berlusconi appartengono a lui personalmente e non indistintamente a tutti gli otto milioni di italiani che lo hanno scelto nel 2013. E avendo la convinzione che quegli elettori (nella larghissima parte) lo hanno scelto non per adesione fideistica alla sua persona ma perché, confrontate laicamente le nostre posizioni e le sue, hanno scelto le sue. Il che significa che se le nostre proposte saranno migliori, potrebbero tranquillamente scegliere noi: come di fatti è successo alle scorse elezioni europee.
Insomma, accettando che la separazione tra elettori di destra ed elettori di sinistra non è etnica. E’ politica, e in quanto tale superabile. Non tutti gli imprenditori sono sfruttatori, non tutti i commercianti sono evasori, non tutti i professionisti e gli artigiani sono utilizzatori di condoni. E comunque non ci voteranno fino a quando non riusciremo dar loro rispettivamente: regole del lavoro più comprensibili e affidabili, un fisco più semplice e equo, una pubblica amministrazione più trasparente e prevedibile nei suoi comportamenti. Tutte conquiste per il Paese, che certamente non dispiaceranno nemmeno ai nostri elettori tradizionali.
Invece di condannare moralmente una parte dell’elettorato, dunque, abbiamo provato a farci carico dei problemi che esso vive quotidianamente e questo ci ha resi in automatico un interlocutore credibile e una scelta politica concreta nella cabina elettorale.
Landini, ahinoi, non la pensa così. E questo condanna lui, e quella parte della sinistra che benissimo rappresenta, a stare in una riserva indiana dalla quale siamo usciti per non rientrarvi, auspicabilmente, mai più.
Altro che imperizia, caro Jacopo. Le parole di Landini sono un manifesto politico.