L’attimo fuggente
In un impeto di autocritica, Massimo D’Alema ha archiviato, dalle pagine del Corriere di ieri, la “terza via” di cui fu uno dei principali esponenti alla fine degli anni ’90. Abbiamo fatto grandi cose in quel periodo, dice D’Alema, ma ora è il momento di archiviare la questione e di tornare a riconoscere l’importanza dell’intervento dello Stato e della spesa pubblica in economia.
C’è un dettaglio non secondario sul quale però D’Alema sorvola ed è che i successi ai quali egli si riferisce – pur volendoli riconoscere – non hanno purtroppo spiegato i propri effetti negli anni e non sono serviti a impedire che ci trovassimo oggi con un’Italia in affanno assai maggiore di quanto non capiti ad altri Paesi. Non ci spiega insomma per quale motivo – proprio in quel momento di grande espansione – l’Italia non fece riforme strutturali, quelle che si chiamano così perché producono effetti nel tempo senza sciogliersi come neve al sole.
Vale la pena di ricordare che la legislatura 1996-2001, quella giusta per fare tutto questo, fu sì segnata dalla vittoria del centro-sinistra ma fu poi funestata dalla costituzione di quattro governi in cinque anni. Se all’epoca il centro-sinistra fosse stato unito e si fosse concentrato sul fare riforme strutturali, vedi ciò che successe in Germania, oggi non dovremmo star qui a rincorrere. Né a farci ricordare dalla Commissione – che ha recentemente promosso la nostra legge di stabilità contro le previsioni di molti – che la luce verde è sì stata accesa, ma condizionata proprio a quelle riforme che l’Italia annuncia dall’epoca senza farle mai.
Se, per esempio, il D’Alema di quel famoso discorso di chiusura del congresso del PDS del 1997, quello in cui sostenne la necessità di rivedere radicalmente il rapporto tra la sinistra e i lavoratori precari, avesse contribuito a realizzare quello di cui parlava, forse la crisi ci avrebbe trovato meglio preparati e oggi non staremmo qui a parlare ancora dell’articolo 18.