L’amore, che non osa pronunciare il suo nome
Ero in teatro, al Piccolo a Milano, la sera dell’ultima rappresentazione di Lehman Trilogy a cui abbia assistito Luca Ronconi. E’ stata l’ultima volta in del maestro in un teatro prima di morire, e ovviamente la cosa mi ha colpito molto profondamente.
Questa mattina leggo le pagine di Repubblica in ricordo di Ronconi e incappo nell’intervista a Luca Bini, “l’attore“, scrive la giornalista Anna Bandettini, “del lungo sodalizio professionale e umano con Luca Ronconi“. “Un rapporto“, prosegue Bandettini, “che senza melensaggine, lui stesso definisce ‘un viaggio splendido pieno di problemi. Abbiamo condiviso mille lavatrici, ma tra tanti ostacoli’ “.
Non sapevo fino a stamattina che Ronconi fosse gay, né che Bini fosse il suo compagno. E a dire la verità per capirlo dall’articolo di Repubblica ci ho dovuto mettere un bel po’, a partire dal vago sospetto dettatomi dal dettaglio della condivisione di detersivi, ammorbidenti e centrifughe.
La relazione tra questi due uomini nell’articolo della Bandettini è ora “un rapporto personale“, ora “una strana e balzana convivenza” (?). E il massimo del rimpianto di cui si parla in questo articolo per questa coppia, è che Ronconi non sia riuscito a vivere abbastanza a lungo per poter adottare (non sposare, adottare) Bini.
Quanto sarebbe stato più facile, mi sono detto, per la giornalista, se Bini fosse stato una signora Lucilla e non un signor Luca.
Il “sodalizio” sarebbe stato una “coppia” o una “famiglia”, magari la quarta o la quinta della serie, si sarebbero serenamente condivisi letti e non elettrodomestici, come succede di solito tra due persone che condividono l’esistenza, e il “rapporto personale” sarebbe stato descritto con la parola giusta per quello che era. L’amore, che ancora oggi, Anno Domini 2015, non osa pronunciare il suo nome.