Pochi dolori sono paragonabili a quello di un genitore che perde suo figlio. Non è casuale che Erodoto, per spiegare l’abominio della guerra, dica che in essa, contrariamente a quanto avviene in tempo di pace, sono i padri a seppellire i figli. Una condizione così atroce che perfino il linguaggio sembra esorcizzarlo: non esiste, nelle lingue che conosco, alcun termine per definire il genitore che abbia perduto il proprio figlio. Nessuna parola per definirlo, a differenza di quanto accade per le vedove e i vedovi, per le orfane e gli orfani.
Ci pensavo riflettendo sulla tragica morte di David Raggi, il ventisettenne di Terni che è stato brutalmente assassinato per futili motivi da un immigrato irregolare, originario del Marocco, con diversi piccoli precedenti di violenza. Un episodio atroce, che ha giustamente destato commozione e indignazione nella città umbra e in tutta Italia. Un episodio che purtroppo è stato un ghiotto pretesto per la xenofobia e il razzismo che, complice la crisi economica, stanno conquistando strati sempre più vasti della popolazione.
Serve a poco ricordare cose ovvie come la somma iniquità di trasformare una responsabilità individuale in una etnica, o come l’assoluta impossibilità di fare di questo episodio una regola o un indizio (due giorni dopo l’assassinio di David, in provincia di Foggia un marocchino è stato aggredito con calci e pugni e ridotto in fin di vita da un italiano, solo per fare un esempio). Inutile. Il delitto è “colpa di Mare Nostrum” e si è data la stura alla consueta, ripugnante litania dei seguaci di Salvini e dei suoi nuovi alleati neofascisti. Social network e trasmissioni radio si sono tramutate nella consueta esibizione di stolta e grottesca ferocia nel nome di questo ragazzo la cui esistenza è stata così stupidamente e definitivamente spezzata.
Ma poi è arrivato Valter, Valter Raggi. L’operaio in pensione padre di David. L’uomo che più di tutti avrebbe avuto titolo a farsi prendere dal dolore, dal risentimento, dalla rabbia. L’uomo da cui avremmo, se non giustificato, almeno compreso parole di odio e di vendetta. Ma non le ha usate: “Non dobbiamo chiuderci nell’odio, ma tornare fuori per imparare a stare insieme” ha detto al Corriere della Sera dopo avere espresso preoccupazione per un suo amico straniero ed avere invitato ai funerali la comunità marocchina di Terni e i suoi rappresentanti.
Non per un perdonismo à la page: Valter e la sua famiglia reclamano una punizione severa per l’assassino che ha ucciso il loro congiunto, il fratello di David chiede che l’omicida non esca mai più di galera. Sono feriti, straziati dal dolore, affranti; ma restano uomini e donne, persone civili, che non intendono farsi ridurre a bestie dalla bestialità di chi ha ucciso David. Un eroe? Io direi meglio: un padre. Nostro. Nostro: che sentiamo vicino, che ci appartiene. Non per un ridicolo accaparramento politico (per quello citofonare Salvini) ma per rivendicare -con la rabbia e l’orgoglio che non fanno vergognare di sé- un’idea di popolo, un retaggio di ragionevolezza e di bellezza, un tratto distintivo.
Quegli “Italiani brava gente”, che hanno certo tutti i vizi dell’oleografia e non devono farci dimenticare il nostro lato oscuro, ma la cui esistenza si fa ogni tanto manifesta e fluisce potente e limpida in mezzo ai liquami diffusi dalle tristi figure dei coltivatori di bile. L’incontro con queste persone –le si conosca o no, le si veda da vicino o da lontano- è una dolce epifania: somiglia ad uno squarcio d’azzurro nel cielo invaso dai nembi. È un soffio di vento possente che lascia l’aria tersa e sgombra dal putridume. È l’Italia che meritiamo di essere. I Fratelli d’Italia, quelli veri, non sono gli usurpatori di questo nome pronti a mettersi una delle felpe di Salvini: abitano a Terni, in casa Raggi.
Il Corriere dice che Valter Raggi è religiosissimo, termine che considero una volta tanto appropriato. Spero che questo non gli impedisca di accettare la sincera e commossa ammirazione di un non credente.