Nel bell’articolo che Mattia Feltri ha dedicato sulla Stampa alla legge anti-omofobia che porta il mio nome e la cui sospirata adozione evoca in Mario Adinolfi lo spettro di schiavettoni e bavagli, c’è un punto che forse merita una chiosa. È quando l’articolista mi attribuisce una forse inconsapevole tentazione di scaricabarile, delegando alla magistratura l’onere di accertare caso per caso quando una manifestazione di pensiero omofobo integri gli estremi del reato e quando no. Un caso, secondo Feltri, di quella supplenza che la politica ricerca nel terzo potere per sfuggire alle proprie responsabilità.
Dal mio punto di vista non è così, e provo a spiegare perché. Intanto non ripeterò mai abbastanza che non desidero vedere il direttore della Croce dietro le sbarre; vuoi perché ho un sacro rispetto della libertà di espressione e di opinione, anche quando malissimo utilizzate; vuoi perché –mi si passi la celia- non credo che agli assassini comuni, ai ladri e ai truffatori ospiti delle patrie galere vada inflitta la pena supplementare della convivenza in cella con Adinolfi.
Il punto è che esiste un sottile ma decisivo limite fra l’espressione di un’opinione aberrante o provocatoria e l’istigazione all’odio, fra un’autoproclamazione di superiorità che può essere una semplice espressione di tronfia stupidità e la maledizione, l’anatema e lo stigma riversato su etnie, fedi e orientamenti diversi dal nostro o da quello che riteniamo “giusto”.
Deve deciderlo la politica? Direi proprio di no. Perché le variabili da considerare sono troppe, perché anche la più dettagliata delle previsioni si presterebbe a svariati e fastidiosi metodi di aggiramento, perché la casistica più minuziosa immaginabile sarebbe sempre suscettibile di interpretazioni e analogie. Più ancora, perché fin dai tempi del codice prussiano di fine Settecento si sa che l’ermeneutica e l’interpretazione giudiziale sono parte costitutiva del diritto, non un suo accessorio. Perché il giudice non è il macchinario che applica pedissequamente la volontà del legislatore, ma il funzionario pubblico pensante che la rende efficace.
Questo può determinare errori? Da che mondo è mondo sì, ma i danni fatti da questi errori sono infinitamente inferiori e preferibili a quello della cieca applicazione di una norma scritta nel bronzo una volta per tutte, che pretenda di sovrapporsi ad ogni realtà e comportamento umano.
Adinolfi lamenta che il demandare al giudice la sussistenza del reato può rappresentare un elemento di incertezza e di pregiudizio per chi venga denunciato. È un’obiezione singolare da parte di un giornalista: non è soggetto a denuncia da parte di chiunque si ritenga leso nella sua onorabilità e diffamato per uno qualunque degli articoli suoi o del giornale che dirige? E l’accertamento della sua eventuale responsabilità non dipende dal dirimente parere dei giudici? Quale sarebbe la differenza?