Il renzianesimo immaginario
“Ditele che la perdono per averla tradita”. È un verso di una canzone di Francesco De Gregori che mi pare utile a definire l’atteggiamento di molti commentatori ed opinionisti, ma anche esponenti politici, a proposito delle elezioni Regionali prima e dei ballottaggi alle Comunali.
Lasciamo perdere i voli pindarici e le arrampicate sugli specchi: mi rendo conto che, non avendo altro a cui attaccarsi, i grillini menino vanto di avere vinto in cinque Comuni su centinaia; posso capire che Brunetta gioisca del risultato di Venezia sorvolando sul tre (tre!) per cento che vi ha conseguito la lista di Forza Italia. È la famosa pelle di zigrino dei commenti elettorali, tirata a forza per adeguarla alle proprie esigenze.
Convengo tuttavia con i più alti dirigenti del mio partito sulla battuta d’arresto, su alcuni ceffoni che bruciano, sulla necessità improcrastinabile di riflettere sul nostro modo di lavorare sui territori e sui meccanismi di selezione della nostra classe dirigente. Penso sia anche ragionevole segnalare un momento che costituisce un passaggio delicato per il Governo, chiamato a sfide impegnative ed impopolari (ma le riforme, se sono popolari sono probabilmente poco incisive) e alla presa con le sfide della vicenda migranti e delle inchieste sulla perdurante corruzione. Temi politici, a cui dare risposte politiche.
È però singolare la pretesa di chi, avendo costruito un mito, ci chiede conto di questo mito. Mi riferisco, naturalmente, al mito della deriva autoritaria basata sulla invincibilità di Renzi e sulla sua indisturbata egemonia per i prossimi decenni, alla natura irreversibile della crisi del centrodestra, all’inevitabile liquefazione del fenomeno grillino. Tutti assunti che hanno campeggiato sulle prime pagine dei maggiori quotidiani e che hanno alimentato polemiche di ogni tipo sull’Italicum.
A questo costrutto mitico trovo estraneo non solo me stesso, ma anche tutti quanti conosco ai quali si attagli la definizione di “renziani”. Perché nessuno di noi si è stancato di ripetere che gli elettori di centrodestra non potevano essere spariti, che il nostro vantaggio competitivo, quello di essere l’unica forza politica a vocazione maggioritaria presente nell’attuale scenario non sarebbe durato per sempre, tanto più se scavato e corroso da un sordo e costante malumore identitario.
Eravamo e siamo convinti di avere vinto alcune importanti battaglie, ma consapevoli che la guerra è ancora lunga. Eravamo e siamo convinti che una forza lungimirante di sinistra democratica conquista il suo primato fra gli elettori moderati, in quello che viene comunemente chiamato il centro; eravamo e siamo convinti che una sinistra che non voglia condannarsi all’irrilevanza debba liberarsi dai massimalismi; eravamo e siamo convinti che il dialogo che abbiamo il dovere di tessere con tutti, anche con i Cinquestelle, non autorizza castelli in aria su improbabili alleanze.
Dentro queste nostre convinzioni possono esserci, e ci saranno sicuramente, idee opinabili, ipotesi contendibili, errori confutabili. Penso che l’agone politico serva appunto a questo. Serve a ben poco, invece, il renzianesimo immaginario (la “democratura” di Renzi) di cui i suoi stessi costruttori proclamano oggi la fine. A me non duole, e credo nemmeno a Matteo Renzi. Perché in quel baraccone posticcio non ci siamo mai stati.
P.S.: Ha ragione Gianni Cuperlo (cfr. Repubblica di oggi), la gente non vota per ortodossi ed eretici, per civatiani, bersaniani e renziani; vota (o non vota) per il Pd. Che sia una buona ragione per comportarci tutti e sempre come esponenti del Pd e non come persone che sembrano stare in un partito solo perché gliel’ha ordinato il medico?