Da cittadino europeo mi sento molto meglio, sapendo che l’Europa è riuscita ad evitare il peggio, salvandosi all’ultimo tuffo dal micidiale impasto di egoismo e di demagogia che rischia di distruggerla. Devo dire che non ho particolarmente apprezzato né, probabilmente, compreso fino in fondo il modo in cui Alexis Tsipras ha gestito la crisi, ma rispetto profondamente il suo lavoro di rappresentante legittimo e democraticamente eletto del popolo greco.
Quel che mi sento di dire, come italiano, è che è stato provvidenziale che si sia riusciti, pur a prezzo di lacrime e sangue, a tenere a suo tempo la troika fuori dalla porta di casa nostra. Non solo per i dubbi che è lecito avere sull’efficacia delle sue ricette, ma per la cultura a-democratica di cui le tecnocrazie internazionali spesso danno l’impressione di essere pervase. Christine Lagarde è sicuramente una persona molto competente, ma appare abnorme che un’istituzione creditizia come il Fondo Monetario Internazionale abbia chiesto – come riferito dalla Bild – l’avvento di un “governo tecnico” in Grecia. Non solo per l’inammissibile ingerenza nelle vicende di un Paese sovrano, ma per l’approccio autoritario che una frase del genere rivela.
Non è in questione la necessaria competenza che i governanti devono possedere e saper mobilitare, per esempio chiamando a far parte dell’Esecutivo personalità estranee alla politica, come il nostro Pier Carlo Padoan. Il punto è che l’assolutizzazione della “competenza tecnica” significa che c’è un solo modo per fare le cose e che quindi è necessario farle fare a chi le sa fare meglio. La democrazia è l’esatto contrario di questa impostazione: è basata sull’idea che non ci sia alcun “vero bene” oggettivo, ma la contesa fra diverse idee, diversi orizzonti sociali e valoriali di riferimento, diverse possibili strategie per raggiungere gli obiettivi desiderabili (la massima felicità per il massimo numero, la piena occupazione, la stabilità monetaria e così via). Non quindi una cosa da fare che deve essere fatta al meglio, ma una cosa da decidere, un complesso pacchetto di scelte attraverso le quali una comunità determina il proprio destino, conquista progresso, commette e ripara errori. Questa è la politica. Che possiede senz’altro una sua tecnicalità, ma non è e non sarà mai una tecnica.
Da qualche decennio, in concomitanza con l’acquisita natura liquida delle società occidentali, si è scatenata un’offensiva per mettere fuori gioco la politica, per sostituirla con parole chiave diverse: bilanci, parametri, indici di borsa, certo, ma anche parole che appartengono a tutti e quindi a nessuno come la legalità o l'”o-ne-stà” che i grillini scandiscono ritmicamente come se potessero così dividere il mondo tra gli onesti (loro) e i disonesti (tutti gli altri). Sono parole importanti, per carità, fattori di contesto irrinunciabili. Ma ancillari al cuore del processo democratico, che resta basato sul primato della politica, e cioè delle scelte fatte davanti a un bivio dove è ugualmente opinabile – ma ugualmente legittimo – prendere o la strada di destra o quella di sinistra, purché ce ne si assuma la relativa responsabilità.
Questo primato è oggi in Grecia fortemente compresso, e l’auspicio di ogni vero democratico è che Alexis Tsipras – anche quando non si sia per nulla d’accordo con le cose che fa – non si faccia travolgere né dall’esterno né dall’interno. In Italia, grazie a Matteo Renzi, il primato della politica è stato almeno in via di principio ripristinato. È una buona notizia, anche se non piace a tutti. O forse, dato che è esattamente questo che succede in democrazia, lo è proprio per questo.