L’uomo forte o la democrazia debole
Leggo sempre con attenzione, e per ragioni non solo legate al mio incarico, le considerazioni di competenti di varia estrazione a proposito della riforma costituzionale. Ho quindi seguito con interesse lo scambio di vedute che sul tema hanno avuto due autorevoli personalità come Eugenio Scalfari e Giorgio Napolitano. Non penso di destar sorpresa dicendo che trovo assai più convincenti le considerazioni del presidente emerito, ma l’argomento su cui voglio soffermarmi è quello del pericolo, paventato da Scalfari, di avere nel premier un’eccessiva concentrazione di poteri.
L’uomo solo al comando è il babau agitato da ogni parte per motivare critiche e forti opposizioni. Credo però che abbia ragione Napolitano: le critiche, anche in buona fede, sono frutto di un trompe-l’oeil, di una illusione ottica che è ritagliata su una personalità certamente forte come quella di Matteo Renzi, e sulla sua interpretazione, certamente intensa, del concetto di leadership (“Si sta finendo per parlare dell’approvazione di questa riforma essenzialmente in funzione di come si giudica, di che cosa ci si aspetta o si teme dall’attuale Presidente del Consiglio”).
Diciamo subito, e con chiarezza, che il “complesso del tiranno”, che ebbe tanta parte nell’elaborazione dei Padri costituenti, ha fatto del Presidente del Consiglio una figura ben poco rilevante nel nostro ordito costituzionale, rispetto ad altri Paesi: egli non è eletto dai cittadini; deve soggiacere al Parlamento che gli dà la fiducia; non ha il potere di nominare i ministri, ma solo quelli di proporli al Capo dello Stato, e non può revocarli.
La riforma che sta faticosamente approdando alla seconda lettura a Palazzo Madama non modifica in nessun punto questo status. La sua sostituzione non presenta alcun particolare problema tecnico-procedurale, né tanto meno istituzionale. Se i parlamentari decidono di sostituire il governo e il suo Presidente, possono farlo senza incorrere in alcun problema, come accadde a Berlusconi nella scorsa legislatura. Salito al governo con più di 100 voti di maggioranza alla Camera, fu disarcionato dall’incarico prima della fine della legislatura e gli stessi parlamentari votarono la fiducia a un nuovo governo, guidato da un’altra persona. Ricordo, tanto per fare un esempio, che le dimissioni del sindaco o l’approvazione della mozione di sfiducia nei suoi confronti causano lo scioglimento dell’intero consiglio comunale e la decadenza di tutti i consiglieri comunali. Sindaco e consiglieri comunali simul stabunt, simul cadent.
Gli esegeti del combinato disposto riforma-Italicum sottolineano come il segretario-premier avrebbe però a disposizione l’arma assoluta delle candidature alle elezioni politiche, che gli consentirebbero di dominare con un gran numero di “nominati” la Camera dei Deputati. Peccato che il leader della forza politica trionfante alle elezioni abbia la possibilità di “investire” dall’alto meno di un terzo dei deputati che sosterranno il Governo: cento su trecentoquaranta, anche credendo alla molto discutibile ipotesi che i capilista bloccati possano essere equiparati a pretoriani di lealtà assoluta (se mai si dimostrasse che questa qualità, in politica, davvero esista). Gli altri duecentoquaranta deputati sarebbero invece provvisti di una legittimazione elettorale espressa con le preferenze, che non costituirebbe fra essi e premier alcun vincolo ulteriore rispetto all’appartenenza alla medesima comunità politica.
Non ho capito poi per quale ragione un Senato elettivo migliorerebbe questa condizione anziché peggiorarla. Le dinamiche del dialogo tra diverse istituzioni, che spesso prescindono da qualunque appartenenza, farebbero piuttosto pensare che un Senato espressione delle Regioni costituirebbe un contrappeso al potere del premier molto più solido di un’assemblea eletta nello stesso giorno e nella stessa temperie politica della Camera. Basti guardare come le Regioni o i Comuni sanno fare muro, al di là del colore di chi li guida, ogni qual volta sono messe in pericolo le loro prerogative politiche o finanziarie.
Insomma, a differenza di quanto sarebbe avvenuto con il premierato forte che la Bicamerale di D’Alema stava per varare con il concorso di Berlusconi e Fini, la riforma costituzionale in discussione non cancella e non attenua alcuna delle garanzie e dei limiti posti al presidente del Consiglio dalla Costituzione della Repubblica. Abolendo il bicameralismo e snellendo il processo legislativo (cosa che è auspicabile si traduca anche in un minor ricorso alla decretazione d’urgenza) gli permette solo di fare meglio il lavoro che i cittadini, indirettamente, e Capo dello Stato e Parlamento, direttamente, lo hanno chiamato a fare.
Se poi – come sospetto – il problema non è l’uomo solo al comando, ma il comando; se insomma quella che si vuole difendere è la democrazia debole e incapace di decidere del consociativismo italiano, allora gli oppositori della riforma, Scalfari in primis, sono assolutamente dalla parte giusta. Basta dirlo.