Fra gli argomenti ricorrenti di quanti sostengono una continuità idealtipica fra Matteo Renzi e Silvio Berlusconi, c’è l’attitudine all’ottimismo, con l’evocazione delle “pizzerie piene” e delle code alle agenzie viaggi che nel 2011 l’allora premier citò per esorcizzare i dati della crisi. A me pare che non solo il parallelo sia incongruo, ma al contrario indichi in modo esemplare come il “renzismo” sia l’antipodo del berlusconismo.
È vero che entrambi richiamano l’ottimismo (d’altra parte una politica priva di speranza sarebbe una irriducibile contraddizione in termini), ma sono due tipi di ottimismo decisamente diversi. Il primo, quello del Cavaliere, è il tipico ottimismo del liberista: le cose sono destinate ad andare sempre meglio, con la sola condizione che lo Stato, la politica, la società non pongano troppi problemi all’intraprendenza e al talento dei singoli.
L’ottimismo di Renzi è quello della volontà, di memoria gramsciana. È cioè l’idea liberaldemocratica che la forza delle comunità sia in grado di prevalere sulle difficoltà e gli ostacoli, purché la dialettica delle classi dirigenti politiche e sociali costruisca linee di indirizzo credibili e progetti praticabili.
Le pizzerie piene di Berlusconi servivano ad occultare un’incipiente realtà drammatica, quella che ci è poi costata tre anni di durissima recessione; erano un modo per narcotizzare l’Italia e tenerla in un immaginario Paese dei balocchi. Noi, con Renzi in testa, stiamo cercando di convincere l’Italia a riempire qualche volta le pizzerie. Cerchiamo cioè di sciogliere il gelido e fatale abbraccio della paura: quello che blocca le intraprese, le assunzioni, i mutui, i progetti di vita. Valorizziamo i segni del Grande Disgelo, dal segno positivo del Pil a quello degli occupati, non per convincere gli italiani che vivono nel migliore dei mondi possibili; ma per dire loro che non si parte battuti, che siamo in grado di giocarcela alla pari, che qualche volta possiamo tornare in pizzeria senza temere di pagarla cara (l’imprudenza, non la pizza).
È chiaro che si consuma su temi del genere l’antico conflitto fra il bicchiere mezzo pieno e quello mezzo vuoto: sarebbe obiettivamente difficile attendersi che l’opposizione dica dalla mattina alla sera che tutto va benissimo, ed allo stesso modo aspettarsi che il motto della maggioranza sia “se tutto va bene, siamo rovinati”.
Diventa grave se le convenienze della propaganda fanno dimenticare la realtà dei fatti: se l’aumento degli occupati ci autorizzasse a trascurare i tanti senzalavoro, o se l’incremento del Pil ci facesse ritenere cancellati i dieci milioni di italiani che sono in condizioni di povertà relativa o assoluta.
Non è meno dissennato, tuttavia, guardare – e magari non soltanto dall’opposizione – con disappunto al calo delle ore di cassa integrazione, alla ripresa del mercato dell’auto e di quello immobiliare, al balzo in avanti del turismo.
Perché, mezzo vuoto o mezzo pieno che si voglia, il bicchiere di cui parliamo è l’Italia. Un bene prezioso e di tutti, non un campo di battaglia sulle cui sofferenze conquistare dei voti.