Due o tre cose sulle adozioni
Ascolto nei dibattiti e leggo sui giornali molte cose sulla stepchild adoption, l’adozione del figlio del partner prevista nel ddl Cirinnà. Cose che condivido molto, come quelle scritte da Chiara Saraceno su Repubblica, e cose che non condivido affatto, come quelle dette dalla senatrice del mio partito Emma Fattorini sull’Unità.
Dal mio punto di vista la discussione nasce male, perché il tema della filiazione mi pare impugnato strumentalmente come estremo rifugio della discriminazione. Non potendo più bloccare il riconoscimento delle coppie gay – che, salvo nostro suicidio in stile legge sull’omofobia, ormai la battaglia sia persa lo ha capito pure Giovanardi – si utilizza l’argomento della filiazione, che con le unioni c’entra come il cavolo a merenda. Come se in Italia fosse vietato sposarsi senza volere figli, o senza poterne avere per sterilità o raggiunti limiti di età, o come se la legge sancisse la nullità del matrimonio della coppia etero che ricorresse a tecniche di fecondazione medicalmente assistita vietate in Italia.
In ogni caso, se il tema è quello affrontiamolo pure. Io credo che esistano solo due tipi di famiglie: quelle felici e quelle che non lo sono. Penso che si debba fare ogni possibile sforzo perché i bambini crescano in famiglie felici, dove ricevano protezione, affetto e gli strumenti per affrontare il proprio percorso di vita essendo ben attrezzati alla realizzazione dei propri sogni.
Che si possa pensare che questi strumenti vengano solo da una coppia, e solo da una coppia eterosessuale è semplicemente il contrario della realtà: ci sono singoli che sono perfettamente in grado di allevare un figlio, coppie omosessuali serene ed equilibrate e, dall’altra parte, coppie eterosessuali a cui non affiderei il gatto per il weekend. Ogni tanto qualche estroso burlone mi manda la foto di due uomini seminudi scattata in qualche pride per farmi vedere com’è fatta secondo loro un’orribile e oscena coppia gay, e verrebbe da rispondergli che due palestrati esibizionisti sono comunque sempre meno preoccupanti dell’uomo che venerdì sera a Pistoia ha dato trenta coltellate alla madre di suo figlio di quattro anni. Chi di cliché ferisce, farebbe bene a preoccuparsi di non morirne.
Abbandoniamo dunque ogni approccio ideologico e diciamo con chiarezza che non esiste alcun diritto ad adottare. Esiste solo il diritto sacrosanto dei bambini di avere una famiglia e di essere messi in condizioni di parità con gli altri bambini rispetto alle sfide della vita. La logica vorrebbe che ogni famiglia (coppia o singolo che sia) desiderosa di offrire questa possibilità a un bambino fosse valutata, con rigore, a posteriori. Tu famiglia alzi la mano, io Stato ti valuto per quello che sei in concreto.
Ogni esclusione a priori – sulla base di requisiti generali, basati sulla presunzione che una famiglia non sia adatta per una caratteristica escludente stabilita in generale, indipendentemente dalla valutazione concreta di quella specifica famiglia – diminuisce il bacino delle famiglie disponibili. Questo costituisce dunque una limitazione alla possibilità che il bambino trovi una famiglia, e quindi costituisce un pregiudizio al suo diritto di averne una. Proprio per questo ogni esclusione a priori non dovrebbe essere basata su pregiudizi, ma su fatti: capisco l’esclusione di chi abbia alle spalle sentenze penali per reati di sangue, non capisco per nulla l’esclusione di persone o coppie omosessuali.
Il realismo politico e l’etica della responsabilità, esercizio che vi assicuro essere molto doloroso sul piano personale, ci fanno accantonare questi discorsi pur così solidi e ci fanno concentrare esclusivamente sulla famosa “stepchild adoption” che non ha nulla a che vedere con questa tematica: riguarda infatti la situazione di mancanza di un solo genitore e non di entrambi. Il caso di scuola è quello della donna che cresce un figlio non riconosciuto dal padre: un tempo si chiamavano (orrore, per fortuna le cose cambiano) “ragazze madri”. In caso questa persona si ricostruisca una vita e il suo nuovo partner voglia riconoscere questo bambino, c’è qualcuno che potrebbe o vorrebbe ragionevolmente impedirlo? La legge italiana, no, tant’è vero che permette questo speciale tipo di adozione anche al partner convivente non sposato. Il principio di fondo è che, nel caso ci sia un bambino o una bambina con un solo genitore biologico ab origine (gli ipotetici vedovi non c’entrano niente, ho già cercato di spiegarlo più volte a Maurizio Sacconi) va favorita la “legalizzazione” del secondo genitore sociale eventualmente presente.
Perché l’omosessualità di questo genitore sociale dovrebbe essere impeditiva? Perché si dovrebbero negare al bambino che abbia un genitore biologico omosessuale i diritti e le opportunità di un bambino che invece ne abbia uno etero? Il costrutto è così apertamente irrazionale che la magistratura ha già dovuto pronunciarsi, ovviamente in modo favorevole all’adozione. Non meno irrazionali sono i fondamenti dell’opposizione: un bambino – si afferma con sicumera – deve avere un padre e una madre. È un’opinione che pretende di ergersi a verità, ma è soprattutto un caso da manuale di conflitto fra le categorie kantiane dell’essere e del dover essere (das Sein e das Sollen).
Il bambino che abbia una madre biologica o un padre biologico omosessuali un padre e una madre non ce li avrà: avrà due padri o due madri, cioè le figure parentali con cui crescerà, da cui sarà nutrito e assistito, su cui conterà nella vita. Si può scriverglielo sulla carta di identità o no, metterlo nelle carte della burocrazia o no. Ma questo non cambierà la realtà, avrà solo l’effetto di renderla più difficile e complicata (per esempio negando al bambino il diritto di legittima sull’eredità di uno dei suoi genitori).
Ci abbiamo messo decenni a superare la distinzione tra figli naturali e figli legittimi, ed è davvero inaccettabile ristabilire una differenza tra bambini e bambini. Per questo nessuna soluzione terza – come l’affido proposto in un emendamento al testo Cirinnà da alcuni senatori del Partito democratico, tra cui la stessa Fattorini e Stefano Lepri – è accettabile. Se obtorto collo accettiamo la discriminazione degli omosessuali adulti, ai quali solo per ragioni legate al proprio orientamento sessuale resterà vietato sposarsi e poter chiedere l’adozione esterna, nessuno può pensare che per legge si sancisca la discriminazione dei bambini sulla base dell’orientamento sessuale dei propri genitori.
La seconda obiezione, che trovo ancora più lunare, è quella dell’incoraggiamento all’utero in affitto, denominazione orribile e ideologica di quella che si chiama “gestazione per altri”. La mia collega Emma Fattorini dice di esservi fieramente avversa non perché cattolica, ma perché femminista. Non contesto, ma trovo ben strano un femminismo che, per pratiche presunte riprovevoli da parte degli omosessuali maschi, voglia negare la stepchild adoption anche alle coppie di donne. Osservo che la gestazione per altri, praticata per il 98% dei casi da coppie etero, è passata da pratica vietata dalla legge italiana a sommo abominio e crimine contro l’umanità solo nel momento in cui se ne è parlato a proposito di genitorialità omosessuale, ed è una bizzarra coincidenza che forse merita qualche riflessione. Lo sfruttamento delle donne nei paesi in via di sviluppo, dove la GPA è un reato e dunque non c’entra nulla con le leggi di civilissimi paesi quali Canada e Stati Uniti, è stato invocato soltanto quando si è cominciato a parlare di unioni civili.
Quello che davvero non si comprende, è in base a quale logica si dovrebbe penalizzare qualcuno per il modo in cui è nato. Perché – sia chiaro – è al bambino o alla bambina che si tolgono diritti, non ai genitori. I senatori Fattorini, Lepri e gli altri vorrebbero condannare un comportamento facendone pagare il prezzo non agli autori, ma al minore che dicono di voler tutelare. Un bambino che per tutta la vita, fino alla maggiore età, dovrà confrontarsi con l’idea che uno dei suoi due genitori sociali è in realtà un quasi-genitore, con il prevedibile impatto che la cosa potrà avere nella fase più delicata e turbolenta della crescita.
Questa inconcepibile tortura cinese disincentiverebbe la gestazione per altri, cara Emma? I fatti ci dicono di no. Perché una coppia, etero o no, che ricorra alle diverse metodologie procreative messe a disposizione dalla scienza lo fa essenzialmente per inserire nel suo progetto di vita un essere umano che cresca. Non è un percorso che si compie per avere un figlio nelle carte e sui documenti: lo si fa per dedicarsi all’altro da sé, per perpetuarsi; per il più sommamente umano e naturale dei bisogni. Ci sono moltissimi bambini nati con la fecondazione medicalmente assistita, e sono nati anche sotto il regime medievale della legge 40: le coppie italiane hanno viaggiato e speso soldi, tempo ed energie per avere in altri Stati ciò che il loro paese vietava loro. Credere che questo bisogno possa essere spento, oggi come allora, dagli arzigogoli dell’oltranzismo mi pare sinceramente una manifestazione di assoluta cecità. Che peraltro accompagna con una certa regolarità, diciamolo, prevenzioni e pregiudizi.