Ieri è stato uno di quei giorni che i latini avrebbero definito dies signando lapillo. Un giorno memorabile, insomma. Per la prima volta da tempo remotissimo mi sono trovato quasi completamente concorde con l’editoriale di Marco Travaglio sul Fatto. Certo, è molto raro che il concessionario italiano della verità etica dia atto a Matteo Renzi di avere tenuto, sulla vicenda di Parigi e della Siria, una linea di condotta sobria, ponderata e responsabile, ed è ancora più straordinario che faccia professione di onestà intellettuale considerando che sì, insomma, sugli stessi argomenti il Movimento Cinque Stelle ha fornito una pessima prova.
Al di là dell’esilarante performance di Alessandro Di Battista a Ballarò, non c’è dubbio che per i seguaci di Beppe Grillo il tema sia proibitivo. Non solo, però, per insipienza e inettitudine, ed è qui che si spiega il mio essere “quasi” completamente d’accordo con Travaglio. Perché Marco il Caustico sprona con convinto impegno i pentastellati, notoriamente cari al suo cuore, perché li sospetta di essere degli scavezzacollo svogliati, che con un minimo di accortezza potrebbero facilmente recuperare, in termini di credibilità e allure da statisti, questi inammissibili sfondoni.
Purtroppo non è così. Non è che Dibba, Di Maio, Fico e compagnia cantante siano dei ragazzi intelligenti che non si applicano, come si diceva un tempo ai colloqui scolastici. È che essi sono il perfetto prodotto di un Movimento che è basato sul rifiuto della complessità, sull’idea che le distinzioni siano trucchi ingannevoli, che l’analisi e le riflessioni siano fastidiose anticaglie o oziose perdite di tempo e che gli stop-and-go e le mediazioni a cui la realtà spesso costringe la politica siano soltanto degli espedienti costruiti ad arte per nascondere un qualche imbroglio.
La politica per 5stelle, insomma, è sempre a due dimensioni: qui ci sono gli onesti e lì i disonesti, qui i buoni e là i cattivi, tutto quello che non è così non può che essere inevitabilmente Pomì.
Nel drammatico ginepraio mediorientale Matteo Renzi usa parole sobrie e ponderate perché non c’è alcuna alternativa ad esse che non si riveli comica o fallimentare: perché quando i tornanti e le tempeste della storia ti mettono davanti all’intima tragicità della vicenda umana, ogni battuta smargiassa o garrula è fuori posto. La prima cosa che invecchia, quando il travaglio dei popoli e delle civiltà mostra le sue scintille e i suoi stridori, è il piccolo orizzonte delle frasi fatte di ciascuno, il repertorio più o meno mediocre delle proprie certezze routinarie.
In tutta sincerità, non è grave che Di Battista&co. non abbiano la più pallida idea di cosa si debba fare contro la minaccia dell’Isis. Fra i potenti della terra ci sono forse idee un po’ più chiare, ma convinzioni granitiche e irrevocabili non ne ha nessuno. La differenza è che gli uomini di Stato degni di questo nome, Renzi compreso, sanno di non saperlo, e che dovranno decidere attraverso un minuzioso esame delle conseguenze, dei pro e dei contro, delle incognite e delle interazioni proprie ed altrui.
La frase “Non lo so” non si improvvisa; richiede fatica, impegno e competenza. Richiede consapevolezza, a un tempo, dei propri limiti e delle proprie responsabilità. Tutte cose che dalle parti dei “Magazzini All’Onestà” sono praticamente sconosciute.