La compostezza giova
Quando si parla di risultati delle elezioni all’estero il rischio del provincialismo è in agguato: l’anno che si era aperto con lo squillante annuncio della vittoria della sinistra radicale ad Atene si chiude con il pericolo sventato della marea nera del Front National. Parlare di questi risultati senza inquadrarli nei contesti locali è abbastanza improvvido. Tuttavia è indubbio che le due vicende forniscano spunti di riflessione e di analisi di qualche utilità.
E’ verissimo, ad esempio, che ci sia un’eclissi della tradizionale diade fra destra e sinistra, messa in ombra dalle nuove contrapposizioni fra europeisti e nazionalisti (“globalisti contro patrioti” nella rappresentazione di Marine Le Pen), o fra moderati e radicali. Questo, però, non è il frutto di un improvviso impazzimento delle nostre società, ma uno dei tanti prodotti della crisi.
La dialettica e il conflitto fra capitale e lavoro, di cui le grandi parti politiche sono il prodotto, sono messi sotto assedio dalle masse degli esclusi e dei non garantiti. Nella società liquida, organizzata per umori più che per interessi e per paure più che per progetti, l’assunzione di un punto di vista radicale, con tutte le sue facili semplificazioni, fa presa in misura molto maggiore di quanto non avvenga nei periodi di crescita e di benessere.
La camera di compensazione per il contenimento di questi radicalismi fu nel dopoguerra il sistema elettorale proporzionale. Si tratta di un sistema centripeto, che tende all’emarginazione delle estreme e riconduce nell’alveo parlamentare le tensioni e le passioni della piazza. Questo fece sì che in Italia, malgrado l’asprezza e l’estrema violenza dello scontro di classe negli anni Cinquanta, le istituzioni repubblicane ebbero una sostanziale tenuta malgrado (e in parte per) la presenza del più grande Partito Comunista d’Occidente.
I governi deboli che non di rado sono il prodotto del sistema proporzionale creano però i propri inconvenienti al sistema, in termini di rapidità e di efficacia dell’azione di governo. Si è arrivati così alla stagione del maggioritario, che contrariamente al suo nome premia la minoranza più forte e tende ad accentuare gli aspetti di competitività e di ricambio del sistema politico. Il contrappasso è rappresentato dalla maggiore facilità con cui forze eversive o demagogiche possono potenzialmente arrivare al Governo. Il correttivo a questo rischio non si trova né deve trovarsi nella Costituzione e nelle leggi elettorali, ma nella qualità dell’offerta politica, in altre parole nella bontà dei programmi delle forze democratiche e nella loro capacità di costituire una proposta affidabile e solida per la maggioranza degli elettori.
Naturalmente il peculiare meccanismo del ballottaggio aiuta, ed è veramente un bene che sia stato inserito nell’Italicum; così come, nella tradizione britannica, aiuta il sistema dei collegi uninominali secchi, anche a costo di distorsioni che in Italia farebbero dare di matto a molti nostri commentatori sempre atterriti dal fantasma della deriva autoritaria (vedi l’UKIP che prende solo 1 seggio col 12% dei voti).
Il punto vero è che non servono anatemi o esorcismi, o carabattole regolamentari per fermare i populismi. Tanto meno servono inciuci e ammucchiate innaturali. I nostri giornali di destra continuano rigorosamente a mentire su quello che è accaduto in Francia, ma la verità è che socialisti e repubblicani non sono al governo insieme in nessuna delle tredici Regioni d’Oltralpe; e nessuno lo ha neanche proposto. Il Partito Socialista ha solo praticato la desistenza e invitato i propri elettori a votare per i gollisti come male minore rispetto al successo del Front National.
Sì, perché destra e sinistra esistono eccome, e non sono fatte, salvo situazioni eccezionali ed emergenziali, per stare al governo insieme. Devono competere e scontrarsi, nel rispetto del gioco democratico, con piattaforme di governo che potranno certamente avere punti di contatto o addirittura di identità, ma resteranno sempre sensibilmente diversi e in qualche caso contrapposti.
E’ questo che batte i populismi: perché Matteo Salvini, Beppe Grillo, Marine Le Pen potranno mietere consensi in maniera più o meno spregiudicata quando si tratta di battaglia per il consenso, di politics. Ma resteranno sempre inadeguati sotto il profilo della policy, della capacità di governo. Almeno fino a quando non matureranno, si cimenteranno con il duro sasso dei fatti e della loro complessità. Il che significa che smetteranno di essere populisti. Lo si è visto, da sinistra, con la vicenda di Tsipras che era decollato incendiario, ma alla fine è atterrato pompiere. Se si vuole governare, bisogna arrendersi alla concretezza delle cose da fare. Gli slogan roboanti possono forse funzionare all’opposizione, ma quando si ha la responsabilità di un Paese le cose non sono mai riducibili al “o così o pomì” che tanto funziona in certi programmi televisivi.
Il corollario evidente di questa analisi è che i populismi si combattono innanzitutto rifiutando l’idea, tutta italiana, che si sia in campagna elettorale permanente, e che tutto si riduca agli strepiti un po’ inconsulti del presidente Brunetta che abbiamo visto ieri a Montecitorio. Un centrodestra italiano più moderato nei toni, quanto nelle proposte, sarebbe probabilmente uno svantaggio per noi del Pd, che avremmo un avversario senz’altro più temibile e più competitivo per la guida del Paese. Ma, rispetto alla svendita della destra moderata alle felpe di Matteo Salvini, sarebbe sicuramente un vantaggio – oltre che per la destra moderata medesima – anche per l’Italia.