Ho appena letto su Facebook il commento di un giornalista “de sinistra” che per criticare il PD (e, en passant, sostenere Grillo) dice che celebrare il 25 aprile è “attaccarsi ai simboli del passato”. Un’affermazione così, diciamo, esorbitante, spiega bene il livello di contrarietà emotiva che il Partito democratico di Renzi provoca in una certa parte della nostra sinistra. Questo giornalista, evidentemente, è disposto a sacrificare pure la sacralità del 25 aprile – patrimonio condiviso da tutti, ma ragione di vera fede per chiunque si consideri democratico e antifascista – alla propria idiosincrasia per il Presidente del Consiglio.
Questo piccolo episodio mi dà l’opportunità di fare un piccolo ragionamento sul fatto che l’avversità nei confronti di Renzi da parte di un pezzo dell’opinione pubblica – di cui il giornalista che ha lasciato il commento su Facebook è un sicuro esponente – assomiglia molto, per modalità e intensità, all’avversione che lo stesso pezzo di opinione pubblica aveva, a suo tempo, nei confronti di Berlusconi.
Dato che in quel pezzo di opinione pubblica ci sono stato sicuramente anch’io, che all’epoca ero in strada con Daria Colombo (oggi candidata con Sala a Milano) a fare i girotondi, mi sono chiesto come mai quelli che un tempo sono stati i miei compagni di strada mi sembrino oggi dei critici estremi e irrazionali, pregiudizialmente contrari a un governo che oggettivamente sta lavorando efficacemente a risolvere i problemi del Paese. Perché, insomma, io non sia in questo momento insieme a quelli che furono un tempo i miei compagni di strada in una linea ferocemente antigovernativa, e anzi sia addirittura – e con grande convinzione – parte del governo di Matteo Renzi.
La ragione per cui trovai a suo tempo opportuno circondare il Tribunale di Milano tenendomi per mano con migliaia di festanti sconosciuti era che mi pareva preoccupante che l’allora Presidente del Consiglio fosse un imprenditore molto ricco, titolare di concessioni pubbliche, capace di manipolare il consenso attraverso un enorme numero di giornali e televisioni, sospettato di essere entrato in politica per salvare le proprie aziende gravemente indebitate, accusato in numerosi processi per reati gravi e con la chiara intenzione di voler mandare a monte, per via legislativa, quei processi.
Oggi non c’è nessuna di queste ragioni in piedi. Renzi potrà piacere o non piacere, ma non si trova in nessuna di quelle situazioni in cui si trovava Berlusconi. Renzi è un politico, ha le sue idee, le porta avanti. Ha un’idea di un’Italia migliore di quella che ci siamo raccontati per troppo tempo, pensa che questo nostro Paese abbia le potenzialità per acquisire una posizione di leadership in Europa e nel mondo, governa questo Paese come un leader di questo secolo, cerca di fare cose di cui la politica parlava da decenni senza concludere gran chè.
Io in questo programma mi ritrovo al 100%, lo sostengo con tutto il mio cuore, ci lavoro indefessamente e per questa ragione, come dissi già molti anni fa, “sto con Matteo”. Vai a capire ora perché tanti miei amici di un tempo non solo avversano Renzi sul piano dei contenuti, ma lo ritengono, come dicono, “uguale a Berlusconi” e dunque da affrontare come si affronta un pericolo per la democrazia, con un atteggiamento di tipo assolutamente “girotondino”.
La risposta, mi sono detto, può essere una soltanto. Posto che Renzi e Berlusconi sono così evidentemente e oggettivamente diversi (per età, professione, interessi, idee, patrimonio e carichi pendenti) se ci sono persone che continuano a usare contro Renzi gli stessi strumenti che utilizzavano contro Berlusconi è perché probabilmente essi hanno a disposizione soltanto quegli strumenti. Insomma non sono Renzi e Berlusconi a essere tra loro uguali, ma sono evidentemente gli oppositori di Berlusconi di ieri che sono rimasti uguali a se stessi.
Forse la ragione principale per la quale si attaccava Berlusconi e si facevano i girotondi non erano – come ingenuamente pensavo io – i conflitti di interesse, le leggi “ad personam” e così via. Forse quello che creava un problema era una questione di metodo, non di contenuto: il problema non era il conflitto di interessi né lo erano le leggi “ad personam”. Il problema era che Berlusconi intendeva governare il Paese e probabilmente c’era un pezzo di Italia che non gradiva in assoluto essere governata. Non lo gradiva ieri, come chiaramente non lo gradisce oggi.
Siamo un Paese profondamente consociativo, abituato a prendere decisioni solamente sulla base di un meccanismo condiviso di concertazione. I decenni della prima repubblica sono stati segnati da una modalità di governo che era quella: l’arco costituzionale in qualche modo era alla guida del Paese, anche con il PCI all’opposizione. Al punto che Berlusconi al suo apparire sulla scena si rivolse a tutti quei dirigenti della sinistra che, poverini, non avevano nessuna colpa non essendo stati al governo nemmeno per un giorno della loro vita, come si fa nei confronti di vecchi arnesi corrotti dal potere di decenni. E l’Italia gli credette.
Abbiamo coniato una parola, la parola “decisionismo”, per indicare in modo negativo l’atteggiamento di chi si assume la responsabilità di decidere, come se prendere delle decisioni fosse una specie di abuso e non la responsabilità propria di chi governa. Di “indecisionismo” non si parla mai, e tutti sappiamo invece che non prendere decisione alcuna, quella sì è una responsabilità gravissima e ancora oggi paghiamo l’operato di una serie lunghissima di indecisonisti di cui nessuno maledice abbastanza il nome.
Sarà forse anche il nostro sistema costituzionale – così ben disegnato per diluire, differire, ripensare e alla fine costringere tutti a un compromesso generale per poter in qualche modo andare avanti – ma in Italia l’idea che chi vince le elezioni debba essere messo in condizione di svolgere un programma e presentarsi alle elezioni successive a chiedere la fiducia sulla base dei risultati sembra essere una prospettiva assolutamente eversiva dei fondamenti della democrazia. (Già sento l’obiezione di chi dice che Renzi non lo ha eletto nessuno, ma ciò non fa altro che confermare la mia tesi: il nostro sistema costituzionale non prevede da nessuna parte che il Presidente del Consiglio, appunto, sia scelto con il voto popolare. Non è stato eletto Renzi, non è stato eletto nessuno dei suoi predecessori. Amen.)
Insomma penso che faremmo tutti bene a entrare in un’ottica differente: quella per cui l’Italia, come tutti i grandi Paesi del mondo, in un sistema democratico di alternanza tra maggioranza e opposizione, possa avere una leadership chiara e contendibile. E poi quella leadership si discuta sul piano dei contenuti. L’opposizione la controlli da vicino per le cose che fa (o non fa). Ma questo “Al lupo! Al lupo!” per cui chiunque abbia una certa idea di Paese debba essere considerato alla stregua di un potenziale dittatore non aiuta in alcun modo l’autorevolezza di chi contesta, e francamente non aiuta nemmeno il Paese a rafforzare le proprie radici democratiche.
Se tutti quelli che governano vengono dipinti come dittatori, il giorno in cui dovesse scorgersi all’orizzonte un dittatore vero potremmo anche finire col non accorgercene.