Il no di Namur e il filo di Budapest
Per chi come me si considera un europeista, questi giorni sono stati caratterizzati da una notizia negativa più o meno quanto quella della Brexit. I valloni – non tutti i belgi, ma la sola parte francofona del Belgio – hanno di fatto bloccato il CETA, l’accordo di libero scambio con il Canada. Quell’accordo è un eccellente accordo commerciale, fatto con un paese amico. Un paese civilissimo, superdemocratico, guidato da un uomo come Justin Trudeau, che è l’equivalente politico della fata madrina di Cenerentola, uno che tutto il mondo ama come il leader più progressista, gentile, inclusivo e moderno del pianeta.
È un accordo che per la prima volta consente ai nostri prodotti di essere protetti su un mercato anglosassone extraeuropeo con il loro nome e la garanzia della loro qualità e della loro origine: in Canada, negli Stati Uniti, in Australia e Nuova Zelanda non esistono le denominazioni di origine (tipo “Prosciutto di Parma” o “Parmigiano reggiano”). Quelle che da noi sono indicazioni geografiche, negli USA, in Australia o appunto in Canada sono marchi che chiunque può registrare e tutelare anche se ha la propria sede a Minneapolis, a Fort Lauderdale, ad Adelaide o a Toronto. In pratica, se fuori dall’Unione Europea ti compri i pomodori di Pachino o il culatello di Zibello è (quasi) certo che il pomodoro e lo pseudo-culatello vengano non dall’Italia ma dall’Oklahoma, dall’Alberta o dal Quebec.
È un accordo, il CETA, che per la prima volta dà alle nostre imprese l’accesso agli appalti pubblici nello stato nordamericano, una quantità enorme di potenziali affari, e quindi di utili e di posti di lavoro, in un settore in cui non abbiamo mai toccato palla. Con il CETA inoltre Canada e UE riconoscono reciprocamente le qualifiche professionali e si rafforzano i diritti di proprietà industriale: il diritto d’autore, i brevetti e tutto quello che tutela i nostri prodotti da copie e contraffazioni.
Ecco: tutto questo sarà con ogni probabilità chiuso alle nostre imprese e ai nostri cittadini perché i valloni non sono d’accordo con una clausola in particolare, quella relativa alla tutela giurisdizionale delle norme contenute nel trattato. Non sono d’accordo soltanto loro, il che significa – vale la pena ribadirlo – che tutti e 28 i paesi membri sono in accordo, tranne la metà di uno. E con 27 paesi e mezzo in accordo, lo 0,5 restante è in grado di bloccare il tutto.
Abbiamo insomma potuto negoziare queste vantaggiose clausole con il Canada perché in Europa siamo 500 milioni, e abbiamo quindi un enorme peso negoziale, ma non potremo goderne perché 3 milioni e mezzo di persone impediscono agli altri 496 milioni e mezzo di approfittarne.
Ma la cosa più grave è che così l’Unione Europea ha negato nei fatti una delle sue principali competenze, quella della politica commerciale. Una delle sue principali ragioni d’essere: quella di poter negoziare tutti insieme, avendo così più forza. Chi si siederà più al tavolo con noi europei se è chiaro che ciò che le istituzioni europee concludono può essere bloccato da un solo Paese, o addirittura dalla metà di un Paese?
Chi ha guardato all’Unione Europea come uno spazio di pace, di cooperazione, di fratellanza, chi si è sentito – per la mia generazione è stato un sentire assai comune – prima figlio dell’Europa che di uno stato nazionale oggi vede davanti a sé un enorme elefante incapace di camminare. Prigioniero della più antidemocratica delle regole che c’è: quella dell’unanimità, che di fatto consegna tutto il potere nelle mani di uno soltanto, quello che dice di no. Un’Europa che ha perso la propria capacità di vedersi unita, e quindi di vedere nell’altro una parte di sé.
Io, lo confesso, sono preoccupato. Perché penso che lo spazio pacifico di cooperazione che abbiamo costruito in questi decenni, e che ha condotto l’Unione Europea a vincere un Premio Nobel per la pace, sia nato proprio dall’aver noi europei smesso di vedere – come abbiamo fatto per secoli – nel nostro vicino qualcuno diverso da noi. Un portatore di interessi contrastanti con i nostri. Se lo Stato che confina con me è un soggetto da cui devo difendermi, bisognerà che io mi attrezzi per difendermi. E dalla difesa attiva alla percezione di un’offesa, e dalla percezione di un’offesa all’autodifesa, il passo non è così lungo.
Non è un caso che l’Europa sia stata pensata in reazione alla più sanguinaria e catastrofica guerra di distruzione che abbia attraversato il nostro continente. Come uno spazio economico, certo, ma con una visione molto più ampia: un luogo dove l’interesse economico comune fosse la premessa del superamento delle barriere e degli egoismi nazionali.
Stiamo invece andando pericolosamente indietro. Ignorando in primo luogo che l’Europa non può che essere innanzi tutto una comunità di valori. Che siamo ciò che siamo perché siamo portatori di una visione della democrazia e della vita che non ha uguali sul pianeta. Non soltanto siamo il continente della diversità e dell’inclusione, un luogo che consente ad altri il diritto a essere se stessi indipendentemente dal principio di reciprocità. A Roma, capitale della cristianità, c’è una moschea. Ecco, noi siamo frutto di quella libertà. Ma siamo anche il continente della rule of law, dell’habeas corpus. Siamo il continente libero dalla pena di morte.
Questo fa di noi europei quello che siamo. E temo che lo abbiamo perso di vista.
Lo si vede quando l’Unione Europea non capisce che per approvare il CETA avrebbe dovuto essere più che sufficiente l’approvazione degli organi dell’Unione, tra cui il Parlamento Europeo, eletto a suffragio universale e diretto da tutti i cittadini. E invece si è imposta una procedura che prevedeva l’approvazione di 38 parlamenti nazionali (e sì, perché alcuni paesi, tra cui l’Italia, ne hanno due).
Solo il governo italiano ha, per bocca del Ministro Calenda, sostenuto che bastasse una ratifica a livello europeo e abbiamo dovuto difendere questa scelta nel nostro Parlamento anche dalle critiche di forze tradizionalmente europeiste: io stesso ho risposto in aula a deputati non della Lega, ma della minoranza del PD, che ci chiedevano conto del “difetto di democrazia” insito in un’approvazione che non coinvolgesse anche i 38 parlamenti nazionali. Quale modo migliore per screditare in modo sottile, ma molto efficace, il parlamento Europeo?
Lo si capisce anche dall’atteggiamento occhiuto che si ha su un’oscillazione sul deficit di un punto decimale e dal lassismo che invece accompagna le determinazioni sulla distribuzione dei profughi sul territorio dell’Unione. Come se questo nostro stare insieme fosse dettato di più dalla rigidità dei numeri che dallo sventare il rischio che il “nostro mare”, il Mediterraneo, si trasformi in un cimitero di massa. Forse abbiamo dimenticato che stiamo insieme perché abbiamo sofferto decine di milioni di morti che solo qualche decennio fa hanno imbevuto il nostro suolo con il proprio sangue, esattamente come oggi sta accadendo ad Aleppo o a Mosul.
È di oggi la notizia che le banche stanno pensando a un esodo di massa da Londra ben prima della conclusione del processo di uscita dalla Gran Bretagna dall’Unione e la sterlina precipita impoverendo proprio quelle fasce sociali che hanno votato più massicciamente per la Brexit, dato che la Gran Bretagna è un paese che importa parecchio di più di quanto non esporti e che molti dei beni di più largo consumo – a partire dal mitico Marmite, e chi conosce la Gran Bretagna sa di quale pilastro identitario sto parlando – sono prodotti da aziende estere.
Ora si può benissimo decidere che la migliore delle strategie sia quella per cui conviene che Sansone muoia con tutti i filistei. Capisco che la rabbia, l’insoddisfazione e la crisi guidino tantissime persone a esprimere una forza di distruzione, ma quello che lascia veramente stupiti è che se ne facciano scientemente interpreti personaggi che sanno benissimo quale sia la posta in gioco. Sostenere il populismo, in maniera diretta o indiretta, anche indebolendo l’europeismo e l’atlantismo e le forze politiche che da essi traggono la loro stessa identità, per lasciar strada a quelle forze che invece giocano alla distruzione, è una responsabilità enorme, destinata – se vincente – a spiegare i suoi effetti più pesanti non nelle prossime settimane, ma nei decenni a venire.
Da Namur, capitale della Vallonia, si lavora a produrre conseguenze non così diverse da quelle provocate da chi ha voluto il Regno Unito fuori dall’Unione, come Boris Johnson, o da chi non ha fatto molto per tenerla dentro, come Jeremy Corbyn. E questi ultimi non hanno prodotto conseguenze tanto diverse da quelle che potrebbero produrre i D’Alema e i Mario Monti nostrani, tanto per fare due esempi, i quali sanno benissimo che cavalcare la rabbia – giustificata per chi nella crisi ha perso tanto o tutto, ma certamente non per due come loro – è un gioco estremamente pericoloso. Che lo facciano Grillo, Salvini o Emiliano non stupisce, ma in questi casi si può almeno capire l’interesse di gente che dalla distruzione dello statu quo e dal precipitare il Paese nell’avventurismo crede almeno di poter lucrare un dividendo politico che né D’Alema né Mario Monti, né Lamberto Dini – a pensarci, un trio che rappresenta l’emblema stesso dell’establishment e dei poteri forti – porteranno a casa mai.
Il punto è chiedersi cosa sarà di questo continente tra trent’anni. Io penso che l’alternativa sia tra unirsi davvero o tornare a guardarsi in cagnesco: dipenderà da quanto sapremo sostenere e realizzare l’idea di Altiero Spinelli. Non ci sono precedenti di un’Europa spazio di indifferenza tra grandi Stati nazionali.
Per averne conferma, basterebbe ascoltare le parole del premier ungherese Viktor Orbàn nel commemorare i fatti di Ungheria del 1956: nemmeno una parola sulla Russia e l’Unione trasformata nel nemico da abbattere. Siamo tutti appesi ai fischi che provvidenzialmente la sua stessa piazza gli ha rivolto. Un sussulto di ragionevolezza a cui chi crede ancora profondamente nell’Europa guarda come a un filo, sottile ma molto prezioso, di speranza.