Scrivo da una stanza d’albergo in una città che si chiama Lahore, immagino molti non sappiano giustamente nemmeno dov’è. Sono in questo Paese da tre giorni, a nome di un governo le cui dimissioni sono state sulle prime pagine di tutto il mondo. Mi aspettavo di dover quasi giustificarmi per essere qui a nome di un Paese il cui esecutivo è arrivato al termine del proprio mandato, e dovreste vedere invece che accoglienza. A Islamabad, la capitale, ho visto quattro ministri, un numero imprecisato di sottosegretari, imprenditori, autorità. Lo stesso anche qui a Lahore, capitale del Punjab, la regione più popolosa e ricca.
Se solo avessi potuto farvi vedere come siamo stati accolti: quando siamo arrivati qui ieri sera la intera hall dell’albergo era pavesata di bandiere pakistane e di bandiere tricolori. Ho ricevuto un numero di mazzi di fiori che penso non potrò eguagliare nemmeno nell’ultima occasione utile che, spero tra molto tempo, mi sarà data per provarci. E tutti qui – anche le cameriere che rifanno le stanze – sanno che, questione di giorni, non sarò più in carica.
Gli imprenditori che sono venuti con noi (a spese proprie, lo dico per i numerosi connazionali ciucciatori di matite) mi sono sembrati molto contenti, di questa missione come di tutte quelle precedenti. Le tantissime fatte dal mio predecessore, Carlo Calenda, al quale va riconosciuto tutto il merito di essersi inventato un modello vincente, e anche quelle fatte con me. Abbiamo provato a “fare sistema”, come si dice.
Abbiamo provato a dimostrare che gli imprenditori italiani e chi in quelle imprese lavora non sono solo bravi e capaci con il loro lavoro di rendere grande l’Italia, ma sono bravi anche perché sono espressione di quel Paese: della nostra inventiva italiana, certo, ma anche di un’incredibile disciplina imprenditoriale. Di una capacità non comune di conoscere i propri clienti e creare prodotti fatti su misura per le loro esigenze. Di un’attitudine a stabilire relazioni commerciali di durata e non soltanto vendite mordi-e-fuggi. Di essere parte di un sistema che esprime aziende grandissime, ma anche aziende (magari medie o piccole) capaci di un’incredibile specializzazione in segmenti di altissima qualità e tecnologia.
Non siamo bravi solo a fare cose belle, ma facciamo bene le cose. Il nostro compito, come governo, è stato quello di rendere la strada un po’ più semplice all’estero per chi fa impresa in Italia. Il nostro prodotto interno lordo, in questi anni di crisi, si è retto sulle nostre esportazioni e noi abbiamo cercato in tutti i modi di sostenere questo settore fondamentale per la nostra economia. Qualche tempo fa il presidente di una nostra importante azienda mi ha detto: “Vede, Scalfarotto, i paesi dove si fa competizione tra imprese sono solo il 20 per cento del mondo. Nel restante 80 per cento la competizione è tra sistemi-paese”.
E dunque quello abbiamo fatto: abbiamo accompagnato le nostre imprese all’estero, facendo in modo che i loro clienti sapessero che c’era un governo a sostenerle e a fare il tifo per loro. Soprattutto quando il cliente è pubblico, questo può contribuire a fare la differenza. Quanto meno a fare in modo che un’offerta sia presa seriamente in considerazione.
È per questo che è stata importante l’accoglienza festosa che abbiamo ricevuto in Pakistan. In questi sette mesi al MISE l’ho vista a Seul come all’Avana, a Teheran come a Buenos Ayres, a Brasilia come a Shanghai, a Chicago come ad Abu Dhabi. E’ il rispetto che ci siamo riguadagnati in tutto il mondo ed è forse la cosa per la quale sono più grato a Matteo Renzi. Aver restituito all’Italia una reputazione internazionale degna del nostro rango. Costruire una reputazione richiede forza, tenacia, pazienza e costanza; per distruggerla basta un nulla. Mille comportamenti virtuosi non valgono nemmeno la frazione dell’effetto causato da una ricaduta.
Se IBM, Amazon, Apple, Philip Morris, Cisco, General Electric e tantissime altre aziende sono tornate a investire in Italia è stato soltanto grazie al senso di coerenza e di energia che Renzi ha restituito all’immagine dell’Italia nel mondo. “Abbiamo scelto di investire da voi perché voi vi occupate del futuro: noi siamo esattamente nello stesso business”: questo ho sentito dire personalmente al nostro Presidente dal CEO di una delle più importanti aziende del pianeta.
Chi cerca brogli nel voto estero, sottovaluta il senso di orgoglio degli italiani che vivono lontani dalla madrepatria. A noi italiani in Italia il bunga bunga ha fatto fare al massimo un sorriso ammiccante (si sa, ci siamo abituati a tutto), quelli di noi che vivono fuori ne hanno vissuto la vergogna come se a Arcore a ballare la lap dance vestiti da infermiera ci fossero stati di persona. Nessuno vive lo stereotipo negativo sulla propria pelle come chi rappresenta, che gli piaccia o meno, il proprio paese nel mondo.
Se sei l’unico italiano in un ufficio di duecento persone, come è successo a me, qualsiasi cosa, buona o cattiva che accade in Italia devi gestirtela come fosse una tua responsabilità personale. Ti fanno le condoglianze se muore gente in un terremoto come se fosse stata annientata la tua famiglia, ma poi pensano allo stesso modo che metà della mazzetta del politico corrotto deve essere finita direttamente sul tuo conto corrente.
La gente all’estero ha votato sì esattamente per gli stessi motivi per cui quella in Italia ha votato no: i secondi hanno votato contro Renzi per i mille rispettabilissimi motivi che li hanno guidati, i primi hanno votato a favore di chi ha rimesso l’immagine del loro paese (e quindi la loro) in carreggiata. Cioè, appunto, Renzi.
Domenica si è persa secondo me un’occasione, ma questo nostro Paese ha pur sempre uno stellone lì a proteggerlo. Quello che invece non sarà possibile recuperare è il danno di immagine che questo voto causerà. Siamo tornati gli italiani che fanno in media un governo all’anno, quelli che ai vertici internazionali ci mandano uno sempre nuovo che non sa nulla di quello che è successo fino a un minuto prima, quelli che è inutile prendere un impegno con loro, perché tanto chi ti stringe la mano tra pochi mesi non ci sarà più.
Per questo, a chi mi ha chiesto in questi mesi – dalla chiacchiera dopocena alla riunione con il fondo sovrano che investe in Italia miliardi di dollari – cosa sarebbe successo se avesse vinto il no, ho sempre detto che l’Italia è un paese solido e tale rimarrà. Ho detto anche, però, che alla fine, comunque fosse finita, in questo momento l’Italia ha una sola leadership possibile, che è quella di Matteo Renzi. Che l’eventuale vittoria del no avrebbe prodotto con ogni probabilità un’instabilità soltanto apparente.
Lo penso anche dopo il risultato referendario, anzi di più. Il referendum si è perso ed è giusto fare tutte le autocritiche del caso. E tuttavia non esiste oggi in questo nostro Paese nessun’altra visione che quella di Renzi. Questo quaranta per cento di voti non appartiene tutto a Renzi, mancherebbe, ma certamente interpreta un sentire che oggi soltanto Renzi raccoglie.
Non entro per rispetto nelle cose da fare per risolvere la crisi, il Presidente Mattarella sa molto meglio di me e di chiunque altro quali dovranno essere i passi successivi verso la soluzione della crisi. Ma certo oggi esiste una parte molto consistente del Paese che chiede a Matteo Renzi di proseguire nel suo lavoro. E questo, semplicemente e soltanto questo, è l’obiettivo politico che mi pare il Partito Democratico debba adesso decisamente perseguire.