A seguito del mio post precedente (“Una polemica medievale“), Alessandro Gilioli mi ha scritto una lettera sul sito “Alganews“. Gli rispondo volentieri qui di seguito.
Caro Gilioli,
Lo confesso: se la lapalissiana affermazione per cui “non siamo solo consumatori. Siamo anche persone” non mi fosse stata indirizzata via internet da una persona che stimo moltissimo come te, sarebbe stata immediatamente catalogata alla voce “commento da bar” (nell’accezione fornita da Umberto Eco a proposito dei social network). Vista l’autorevole fonte si può dire certamente che non sia il caso: mi attrezzo dunque a risponderti, e volentieri.
L’apertura festiva di un megacentro commerciale è frutto o concausa del ridisegno planetario dei rapporti di classe? Mi pare un’idea un tantino forzata, più o meno al livello del tuo raffigurarmi come una specie di Marie Antoinette che nella sua dorata Versailles suggerisce al popolo senza pane di mangiare le brioches.
Assai più modestamente – soltanto per essermi occupato professionalmente per molti anni, come sai, di problemi di lavoro in Italia e all’estero – penso invece che la predominanza e la riorganizzazione del settore dei servizi in una società complessa porti con sé una definizione del tempo molto più sfumata delle vecchie divisioni tra giornate feriali e festive, orari di lavoro e di riposo. Aggiungo anche una definizione finalmente (più, ma purtroppo non ancora completamente) intercambiabile dei ruoli tra uomini e donne, non più costretti ai ruoli di “breadwinners” gli uni e di “caregivers” le altre.
E così il tempo delle nostre vite non è più scandito dai ritmi e dei ruoli che avevano la vita rurale e quella della fabbrica fordista con i loro tempi e le loro stagionalità. E’ per questo motivo che oggi richiediamo (e pretendiamo) il lavoro festivo non solo come opulenti abitanti della società dei consumi, ma anche – più necessariamente – nella nostra assai interclassista qualità di passeggeri di treni, aerei e mezzi pubblici di trasporto, di pubblico di commedie a teatro, di spettatori di cinema, di bevitori di caffè al bar, di mangiatori di pizze e di sushi, di pazienti ospedalieri e di persone bisognose di costante assistenza.
Se è moralmente iniquo il mio desiderio di acquistare un paio di scarpe la domenica, lo sarà anche – scusami la franchezza – quello tuo di andare al ristorante con gli amici nello stesso giorno di festa. A meno che non si voglia dire che mangiar fuori con gli amici sia un’attività più improcrastinabile (e perché mai?) di riparare alla rottura irreparabile di un tacco per poter camminare. Ovvero che non si voglia sostenere, come temo, che la sacralità della persona del commesso del negozio di scarpe sia orwellianamente un po’ più sacra di quella del cameriere del ristorante (che, detto per inciso, non lavora solo la domenica sera, ma anche ogni Natale, Pasqua e Pasquetta che Dio manda in Terra e si fa sul lavoro pure ogni benedetto countdown nelle notti di Capodanno).
E, mosso da umana compassione, non voglio nemmeno pensare di chiederti per quale motivo sei perfettamente a tuo agio se il cameriere ti porta la pizza al tavolo la domenica sera mentre trovi intollerabile che il dipendente di Deliveroo ti porti proprio la stessa e medesima pizza, nello stesso e medesimo momento sulla porta di casa. “Perché il cameriere ha un contratto collettivo nazionale di lavoro, mentre il driver di Foodora è sfruttato“, forse mi dirai. Ma se così fosse – e non ci metterei la mano sul fuoco, purtroppo per il cameriere – avrei ragione io a dire che il problema non è se lavorare la domenica, ma come lavorare la domenica.
Porsi questi quesiti significa questo farsi profeti della deregulation? Certamente no: la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro, la garanzia del sacrosanto riposo e del recupero delle energie durante le ferie, il diritto ad un’equa retribuzione, allo sviluppo professionale, alla non discriminazione, sono nella carta valoriale mia e della comunità politica cui appartengo. Ma proprio per questo l’indignazione a intermittenza mi sembra un metodo molto ideologico, e anche estremamente confortevole, per sottrarsi ai problemi concreti che la contemporaneità ci obbliga ad affrontare.
Il metodo non è certamente quello dell’esaltazione acritica della modernità: ma bisogna sentire il dovere di farsene carico, di governarne nei modi possibili i limiti e le criticità, senza fughe nel sogno o nella nostalgia. Ho profondo rispetto per chi sceglie come modello di vita quello degli Amish: niente elettricità, niente tecnologia, niente automobili, niente “alienazione”.
Rispetto con convinzione chi, per motivi religiosi, nel giorno di festa si propone di non pigiare nemmeno il bottone di chiamata dell’ascensore, figurarsi. Ma elogiarlo, auspicarlo o postularlo come modello universale mi pare un modo come un altro per mettere la testa sotto la sabbia e – considerato che lo si fa su un sito internet, non sul papiro essiccato o incidendolo con uno stilo su una tavoletta di cera – mi pare porti con sé pure un non lieve senso di contraddizione.
La discussione è aperta, ma ci obbliga a soluzioni concrete, e praticabili. Limitarsi a rimpiangere il bel tempo andato quando c’era la lira, il matrimonio indissolubile, la TV in bianco e nero e le domeniche a piedi temo non sia sufficiente, a meno che non si voglia limitarsi consapevolmente – tentazione storicamente assai diffusa nell’amplissima area politica a cui entrambi ci ascriviamo: la sinistra – a un ruolo di puro racconto.
E pure non guasterebbe provare ad uscire una volta e per tutte dalla mitologia della vita in campagna che ci fa “dimenticare” di dire che oggi si vive oggettivamente molto meglio di ieri, da ogni punto di vista. Non parlo di giornalisti gaudenti e politici crapuloni, parlo del miliardo di persone che la globalizzazione ha fatto uscire nel mondo da uno stato di povertà assoluta, dell’aspettativa di vita che è di molto aumentata, del tasso di analfabetismo che è drammaticamente diminuito come quello della mortalità infantile, della condizione delle donne (la prima magistrata in Italia è entrata in ruolo a metà degli anni ’60) e delle persone omosessuali, della tecnologia e delle scienze che hanno reso la vita di oggi infinitamente più vivibile di quella di allora. Quanti di noi rinuncerebbero alla parabola sul tetto, al cellulare, al condizionatore d’aria e a un volo Ryan Air? Insomma, scusami ma la retorica del contadino che balza felice dal letto per andare a spingere l’aratro al primo canto del gallo alle tre del mattino non mi convince per nulla. Zero, proprio.
Quello che abbiamo da fare è invece chiederci come coniugare le sfide della contemporaneità con la dignità della persona. Ma sei sicuro che questa vada tutelata dal paternalistico intervento dello Stato, con tutti i suoi divieti a fin di bene? Io, come sai benissimo, non la penso così: è esattamente lo stesso schema mentale per cui ancora oggi in Italia non si può decidere come morire, e a fatica è stato da poco concesso ad alcuni di noi decidere con chi vivere. Sicuro che per evitare lo sfruttamento nel settore commerciale e dei servizi la soluzione non sia quella di restituire energicamente dignità al lavoro, ma quello di ridurre le ore di apertura? Ammiro queste certezze, ma francamente non mi sento di condividerle.
Sono temi complessi e non è assolutamente detto che sia banale trovare una soluzione o dividere i torti dalle ragioni con una riga netta: questi di qua, quelle di là. Quello che però è veramente inaccettabile da parte tua è far scadere una discussione così importante a caricatura, con il panciuto borghese un po’ idiota da un lato e le masse popolari dall’altro. Diversamente – caricatura per caricatura – mi costringerai, e guarda che non scherzo, a pedinarti di domenica per inchiodarti pubblicamente alle tue responsabilità mentre costringi al lavoro lo sventurato pizzaiolo che ti prepara la tua solita (ed effimera) margherita-doppia-mozzarella.