In cammino
Lo dico con la massima schiettezza: l’esito delle primarie mi ha fatto ripensare che dopo il referendum la cosa migliore da fare sarebbe stata quella di andare subito a votare. La sconfitta referendaria è stata una sconfitta chiarissima, per carità, e ha avuto alla sua base errori gravi che non intendo né nascondere né sminuire, ma il racconto della eliminazione di Renzi dalla scena politica – legittimato da tutta la stampa nazionale – si è tenuto in piedi soltanto perché in quella sede la somma aritmetica (e non politica) degli avversari di Renzi ha avuto l’opportunità irripetibile di mostrarsi compatta.
In un certo senso gli italiani, il 4 dicembre, ci dissero cosa NON volevano (quella riforma costituzionale). Il voto politico a quel punto avrebbe dato la giusta possibilità al corpo elettorale di dire, in modo positivo, cosa volesse, da chi gli elettori volessero essere governati: e avremmo visto tutti che il 60% dei no, una volta suddiviso tra tutte le sue variegatissime anime, non avrebbe certamente avuto la forza di proporre un’alternativa a Matteo Renzi.
Quasi due milioni di persone si sono vestite e sono uscite in una domenica nel bel mezzo di un ponte primaverile e sono andate a votare. Il nostro Partito non appartiene a nessuno che non siano loro. La legittimazione del nostro segretario – per forte che sia – deriva da loro e dura finché esiste. Il nostro partito è contendibile e la sua linea politica è scelta dai suoi sostenitori. Leader con personalità e visioni diverse hanno vinto le primarie da segretario e il partito, come accade ai grandi partiti della sinistra europea, ha oscillato verso una cultura più laburista o più liberal-democratica a seconda dei casi. Nulla a che vedere con Grillo o Berlusconi, proprietari dei loro partiti, i cui sostenitori vivono come in affitto nella casa di uno o dell’altro ricco proprietario dell’immobile.
Naturalmente gli stessi oracoli che prevedevano non più di un milione di persone al voto stanno in questo momento sottolineando che dalle primarie del 2013 si son persi un milione di voti. E’ evidentemente un bel modo di confrontare le pere con le mele. In questi quattro anni sono successe tante cose, compresa l’uscita di un pezzo di sinistra dal partito (quella – Civati a parte – che o comanda o niente), la stabilizzazione dell’assetto politico del paese in un modello tripolare e così via. Il fatto è che ancora una volta l’elettorato democratico, chiamato a mobilitarsi anche in una data oggettivamente complicata, ha voluto esprimere partecipazione e coinvolgimento. Non dimentichiamo che in un partito che aspira a guidare l’Italia si possono vincere le primarie per diventare candidato Sindaco di Genova con 362 voti e candidato Sindaco di Monza con 20 voti (e poi, volenti o nolenti, dover lasciare il passo al secondo classificato: 338 voti per il capoluogo ligure e 17 per la terza città della Lombardia).
Ha vinto Matteo Renzi, insieme con Maurizio Martina. Ho sostenuto Matteo per le ragioni che avete forse già potuto leggere qui e spero davvero che questa sua vittoria segni la ripartenza verso un’agenda di riforme che solo un anno fa faceva dire al Guardian che l’Italia poteva essere il “sorprendente leader del progetto europeo”. Giro il mondo da quando, più di un anno fa, ho assunto la responsabilità per il commercio internazionale del nostro Paese e ho potuto toccare con mano quanto la maggiore zavorra a frenare l’Italia sui mercati internazionali sia proprio il rischio politico.
Orlando ha fatto la sua buona campagna e spero riprenda quel ruolo di leale controparte che ha già nel tempo giocato dal suo posto di ministro della giustizia. Andrea rappresenta una linea che ha radici profonde nella storia del nostro partito e mi aspetto che le sue idee siano presenti nel nostro dibattito e possano contaminare di sé le nostre decisioni strategiche per il Paese. Avrei preferito, e l’ho scritto, che non ci fosse una contrapposizione sul tema dei diritti, che credo sia patrimonio comune del Partito. L’ho scritto con Paola Concia e lo confermo oggi, constatando che dividerci su questo fronte non ha portato alla mozione di Andrea particolare successo.
Poi c’è Michele Emiliano, il cui risultato mi pare dica due cose. La prima è che la sua linea “chavista” è stata respinta con la stessa nettezza dagli iscritti e dagli elettori. E’ vero che la performance numerica è stata discreta in particolare nel mezzogiorno ed eccellente nella Puglia che governa direttamente, ma ottenere in una città come Milano il 2,3% dei voti dice tutto (e questa è la seconda notizia) sull’incapacità di Emiliano di esprimere una leadership nazionale. In breve, gli iscritti e gli elettori del PD hanno detto chiaro e forte che non vogliono morire grillini.
Adesso bisogna rimettersi “in cammino”. Il partito c’è, è vivo e presente nella società, e ha ragione Renzi a dire che adesso è proprio con la società – non con altri – che bisogna fare una “grande coalizione”. Il congresso è fatto, ora ripartiamo.